CONTRATTI AGRARI

Lunedì, 24 Novembre, 2025 - 11:30
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Cultura e Sport
Data pubblicazione: 
Lunedì, 24 Novembre, 2025
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I contratti tra proprietari terrieri e conduttori agricoli nei secoli scorsi sono stati molto vari, anche se riconducibili a due tipologie: contratti di scambio (“livello”, “affittanza”, “enfiteusi”) e contratti associativi (“colonia parziaria”, “mezzadria”, “soccida”). I lavoratori subordinati solo in tempi recenti hanno ottenuto contratti collettivi, che hanno migliorato le loro condizioni di lavoro.

In epoca romana, dopo la centuriazione (v.) del territorio, si applicavano nei lavori agricoli sia i coloni (negli appezzamenti loro assegnati) che gli schiavi (nei fondi più ampi). Ad ogni famiglia di coloni veniva assegnato un podere (sors) di circa 20 piò. La larga disponibilità di manodopera servile consentiva, a chi disponeva di forti capitali, la formazione di grandi proprietà terriere, a scapito dei piccoli proprietari. Anche se notoriamente poco produttivi e se il loro utilizzo impedì la ricerca di innovazioni tecniche, gli schiavi erano ancora considerati investimenti convenienti. Ma, quando il lungo periodo di pace comportò una progressiva riduzione del loro numero, i possidenti si orientarono verso forme di conduzione, come quella del colonato, che coinvolgevano maggiormente i lavoratori della terra nel processo di produzione agricola; frazionarono così una parte delle loro proprietà in poderi, che davano in affitto a coloni in cambio di una parte dei raccolti. La grande azienda agricola, che faceva normalmente capo ad una villa abitata da un fattore o sovrintendente (villicus), era quindi composta da un nucleo di terre padronali lavorate dagli schiavi o destinate al pascolo e alla caccia, e da poderi concessi in colonia parziaria.

Per far fronte alla penuria di manodopera servile, i possidenti obbligarono poi gradualmente i coloni a prestare un certo numero di giornate lavorative sulle terre padronali, oltre al versamento di una parte dei prodotti agricoli e di piccoli censi in denaro. Tale patto agrario sarà poi adottato anche nei secoli successivi e la condizione di liberi coloni divenne così sempre più simile a quella servile.

Allorché nel tardo impero l’inasprimento della pressione fiscale, dovuto ai costi degli eserciti mercenari e della crescente burocrazia statale, e la diminuzione dei prezzi agricoli, derivata dalla forte concorrenza delle province romane, comportarono un progressivo abbandono delle campagne e ridussero la produzione agricola a livelli di sussistenza, le famiglie contadine vennero vincolate per legge alla terra che coltivavano: nacquero così i “servi della gleba” (termine proposto dal giurista Irnerio intorno al 1100), che rimanevano legati alla terra e sottoposti al dominio dei latifondisti. I servi della gleba venivano generalmente venduti insieme alla terra, ma (a differenza degli schiavi) potevano possedere beni mobili, sposarsi e avere figli a cui lasciare un’eredità.

Istituito nel IV secolo d.C., il livello consisteva nella concessione di un bene immobile (per lo più un fondo) dietro il pagamento di un censo in natura o in denaro. Etimologicamente derivato da libellus, ossia il libretto (scritto in duplice copia) su cui venivano specificati gli obblighi reciproci, il livello poteva durare nove, venti o ventinove anni ed era rinnovabile. Grazie a questo contratto, molto utilizzato nel Medioevo, il proprietario traeva profitto dai suoi beni immobili senza alcun impegno diretto e senza rischiare di perderne la proprietà, mentre il livellario poteva godere di un podere per il sostentamento della propria famiglia per un lungo periodo di tempo. Il canone da pagare in natura poteva variare a seconda dell’andamento dei raccolti e spesso il livellario, oltre all’obbligo di migliorare il bene ottenuto in concessione, si impegnava a dedicare alcune giornate di lavoro al padrone del fondo. Grazie al lavoro dei livellari, si resero produttivi molti terreni marginali e vennero ripopolati territori abbandonati nell’Alto Medioevo, come avvenne per Roncadelle.

Il monastero di S. Giulia fece ampio uso di questo contratto, anche sui suoi possedimenti di Roncadelle, che costituivano una curtis (v.) non molto estesa, nella quale trovavano lavoro e alloggio i servi, attorniata da vari mansi o poderi, affidati a massari. Il sistema curtense, affermatosi nell’età carolingia, consentì di organizzare e coordinare la forza lavoro nell’opera di colonizzazione e di espansione dell’agricoltura e rafforzò il predominio sociale dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica.

La curtis era un’unità aziendale suddivisa in due parti tra loro complementari: la riserva o dominico (pars dominica, ossia del signore), gestita in maniera diretta dal proprietario attraverso il lavoro della manodopera servile, e il massaricio (pars massaricia, ovvero dei contadini), suddivisa in poderi (mansi o sortes), assegnati in concessione temporanea ai coloni e alle loro famiglie, che dovevano pagare al proprietario un canone annuo in natura e prestare un certo numero di giornate lavorative sul dominico. I coloni, liberi o servi che fossero, erano quindi obbligati a vere e proprie corvèes, che assicuravano il funzionamento complessivo della curtis collegandone strutturalmente le due parti e affermando la dipendenza dei lavoratori dal proprietario.

Come fossero organizzate le curtes di Santa Giulia, lo si deduce da un importante documento (Breviaria de curtibus monasterii), fatto redigere dal monastero intorno al 900. Si tratta di un prezioso inventario sintetico dei beni e dei proventi del monastero nelle varie corti e curticellae sparse per l’Italia, chiamato anche “polittico”, perché composto da più pergamene.

Dall’inventario sappiamo che a capo di ogni corte vi era uno “scario” (fattore) o un “canovario” (cantiniere, magazziniere), che raccoglieva i censi in denaro e in natura, coordinava il lavoro dei “servi prebendari” (veri e propri schiavi del monastero) e degli “aldii” (uomini semiliberi, utilizzati soprattutto per il trasporto di merci e la consegna di messaggi), assegnava ai “manenti” (i “massari” dei Longobardi) e ai “livellari” (coloni con contratti scritti) i lavori da svolgere sulla parte dominicale e teneva il collegamento tra la corte e il monastero; in cambio dei suoi servigi riceveva una o più sortes. Dall’insieme del documento, dove i dati che riguardano Roncadelle risultano incompleti, si ricava che circa la metà dei rustici era “manentizia”, un quarto libera e un quarto servile.

I manenti e i livellari, oltre a coltivare il podere avuto in assegnazione per un lungo periodo (normalmente 29 anni), avevano l’obbligo di lavorare gratuitamente la parte dominicale della corte per una o più giornate alla settimana e di versare al monastero circa un terzo dei cereali prodotti, la metà del vino, una parte degli animali che allevavano, cui si aggiungevano normalmente vari donativi in natura (formaggi, pesci, olio, miele, torce, legna, ecc.). In alcune corti vi erano artigiani che costruivano attrezzi agricoli in legno e ferro.

Durante il successivo processo di feudalizzazione, si sviluppò attorno al monastero di S. Giulia una clientela armata, che aveva il compito di difenderne i beni e i diritti. L’aristocrazia guerriera, installatasi ereditariamente sulle terre avute in feudo, costituì l’ossatura della gerarchia feudale locale. Tra i vassalli del monastero vi era un gruppo di potenti capitanei, legati anche ad altre istituzioni ecclesiastiche bresciane: i Sale, i Poncarali, i Brusati, i Cazzago, i Lavellongo, gli Ugoni, i Bagnolo, i Confalonieri, gli Ello, i Rodengo. Vi erano poi consiglieri e uomini di fiducia, dotati anch’essi di feudi consistenti, che assicuravano le funzioni amministrative e giudiziarie, come gli Avogadro, i Cazzago, i Gromethello, i Carzia, i Tasca di Calcaria, i Bornato. Il monastero disponeva inoltre di numerosi vassalli non nobili e di truppe di fedeli, legati a S. Giulia con vincoli di varia natura. Le concessioni feudali venivano trasmesse agli eredi e finivano per diventare proprietà privata, con una perdita economica per il monastero, mentre varie famiglie poterono prosperare grazie alla attenta gestione dei fondi ottenuti in concessione, fondando su di essi le loro fortune economiche e politiche.

L’egemonia del monastero di S. Giulia sul territorio locale e sui suoi abitanti è sufficientemente documentata a partire dal 1100, come risulta dalle pergamene rimaste, ora conservate in vari archivi.

In una pergamena dell’8 luglio 1100 la badessa Ermengarda investiva a titolo di livello per 29 anni tre coloni di Gussago (Barucius, Albericus e Albertus) di cinque appezzamenti di terra arativa siti “in loco et fundo Ronchedelle” con l’obbligo di corrispondere ogni anno a titolo di censo il quarto del frumento e del miglio e di dare un pasto per tre uomini, fissando una pena di 100 denari milanesi d’argento nel caso non fossero stati rispettati i patti.

Nell’ottobre 1123 venne assegnata della terra “in loco Ronhcedella” a titolo di livello per 29 anni a 12 coloni per un canone in denaro (due denari per ogni piò dissodato) e in natura (un quarto dei cereali raccolti), nonché un pasto secondo la consuetudine. Lo stesso contratto sulla stessa terra “de Ronkethelle” venne stipulato il 19 maggio 1154 per altri coloni con la durata di 29 anni.

Il 5 febbraio 1200 la badessa Elena Brusati investì in perpetuo i fratelli Lanfranco, Giovanni e Ottolino de Sale di una pezza di terra di due piò posta “ubi dicitur Runkethelle” per il canone annuo in natura da pagarsi a S. Maria d’agosto.

Il 29 gennaio 1210 la badessa Bellintend investì in perpetuo Morandus de Bozis e i figli Girardinus e Petrus di una “sors”, un “sedimen” e pertinenze posti in Ronkethellis per il canone annuo in natura e denaro da pagarsi a S. Maria d’agosto e a S. Andrea.

Il 16 giugno 1219 Adam de Carzia giurò fedeltà alla badessa avendo ricevuto un feudo onorifico consistente in 12 piò di terra in Ronkethellis e 45 denari imperiali di canone annuo “in loco Savali”, davanti ai testimoni Obizio Ugoni, Giacomo Confalonieri e Federico Lavellongo.

Da questi ed altri documenti, si può rilevare che i terreni da coltivare venivano normalmente affittati a persone di fiducia, con contratti livellari di 29 anni (o in perpetuo), in cambio di un canone d’affitto annuo prevalentemente in natura. Spesso la concessione riguardava un gruppo di famiglie, provenienti per lo più da località vicine. A volte i livellari erano persone altolocate, che non coltivavano direttamente la terra. Alcuni fondi erano concessi in feudo.

Verso la fine del ‘200, la durata di locazione dei terreni del monastero venne ridotta a 9 anni ed il canone annuo fissato per lo più in denaro. Nei contratti veniva spesso inserita la clausola di apportare miglioramenti ai terreni in concessione. Ma, in vista dei possibili danni procurati dalle guerre e dalle scorrerie (frequenti soprattutto nei secoli XIII e XIV) o da eventi climatici eccezionali, diventò consuetudine introdurre anche la clausola della sospensione o della riduzione del canone in caso di danni irreversibili alle colture.

I contratti agrari a lungo termine andarono esautorando il Monastero dal controllo diretto sui propri terrieri, riducendoli alla semplice riscossione del canone annuale, tra l’altro sganciato dalle fluttuazioni inflazionistiche. E si finì per legittimare la continuità della conduzione e il rinnovo automatico del contratto perché, con lo sviluppo della produttività agricola, non sempre il Monastero era in grado di rifondere al conduttore le somme investite in via anticipata per rendere più produttivi i terreni. In tal modo le famiglie più attive sul territorio si accaparrarono diversi terreni e diventarono protagoniste di un’economia agraria sempre più dinamica. Tra queste, vi fu certamente la famiglia Porcellaga (v.), che nel corso del ‘300 assunse la funzione di “dominus loci” a Roncadelle, grazie ai continui investimenti fondiari nel territorio ad ovest di Brescia e agli appoggi dei Visconti e delle istituzioni cittadine. Essi rilevarono soprattutto gli appezzamenti di piccoli e medi proprietari terrieri, approfittando dei periodi di difficoltà, che certo non mancavano. Il territorio di Roncadelle, pur essendo poco produttivo, appariva appetibile godendo di privilegi (v.) ed esenzioni fiscali.

La maggioranza della popolazione attiva locale era composta da “brazenti”, braccianti agricoli impegnati ad eseguire lavori nei campi e nelle cascine alle dipendenze del proprietario o, più frequentemente, del massaro o del fittavolo (fitàol), i veri conduttori delle “possessioni”, con cui i proprietari stipulavano contratti di affittanza o di mezzadria.

Con il patto di mezzadria, che si andò diffondendo nel Bresciano verso la fine del Medioevo, si dividevano a metà i rischi e i risultati della produzione; ma il massaro era spesso tenuto a fornire al proprietario prestazioni accessorie in lavoro o in natura (“appendizi”): pollame, uova, maiale, trasporti di derrate in città, ecc. E, oltre al suo lavoro e a quello della propria famiglia, doveva procurare anche le “scorte vive e morte”, ovvero bestiame e attrezzi da lavoro, nonché assumere lavoranti giornalieri quando necessario (mietitura del frumento, falciatura del fieno, ecc.).

Insieme al fondo da coltivare, il conduttore riceveva dal proprietario un’abitazione adeguata accanto alle necessarie strutture rurali e, a volte, anche una parte di sementi e di strumenti di lavoro. Le disposizioni contenute nei capitoli contrattuali regolamentavano in modo minuzioso le operazioni coloniche da eseguire, volte “ad miliorandum et non deteriorandum” il fondo assegnato.

Con l’affittanza, contratto erede dell’antico livello, il “patrone” affidava i propri terreni ad uno o più fittavoli di provata esperienza in cambio di un canone annuo in denaro e di una quantità stabilita di prodotti in natura. Questo contratto era preferito dai maggiori possidenti, che volevano godere di rendite certe e costanti, disinteressandosi della gestione dei fondi e addossando al locatario quasi tutti i rischi della produzione. Dai documenti rimasti si deduce che fosse questa la forma contrattuale preferita dai Porcellaga per la conduzione dei loro terreni di Roncadelle.

Così, nel 1496 Gian Francesco Porcellaga dava in gestione per sette anni ai fratelli Zini di Bornato la “possessione” di Roncadelle, composta da 200 piò di terreni con le relative acque di irrigazione, mettendo a loro disposizione sia il “cortivo” ad ovest del castello che la parte orientale del castello stesso, al canone annuo di 900 lire planette e di una serie di forniture gratuite o a prezzo concordato. Un secolo dopo gli eredi di Sansone Porcellaga affittavano la stessa “possessione” al canone annuo di 3.200 lire, integrato da una lunga serie di donativi in natura: 30 some di frumento, 10 di avena, 8 di melica, 2 di miglio, 2 di panico, 62 pesi e mezzo di uva scelta, un maiale di 14 pesi, 30 paia di capponi, 30 paia di polli, 1000 uova, 1500 fascine di legna, ecc.

Nella seconda metà del ‘600 la “possessione” venne affittata a Pietro Quaranta al canone annuo di 3850 lire e beni in natura per un valore di circa 2.100 lire; mentre la proprietà di Antezzate (v.) rendeva annualmente ai Porcellaga 6.940 lire in denaro e 220 lire in prodotti agricoli.

I capitoli sottoscritti dai conduttori stabilivano il tipo di coltivazione e la quantità di superficie da destinare ad ogni produzione. Veniva privilegiato il frumento, al quale si riservava la maggior parte del terreno “aradore”; una parte era riservata al trifoglio ed un’altra a “formentone”, miglio e melica.

Anche la coltivazione del lino, da cui si ricavavano fibre tessili ed olio di linosa, aveva il suo spazio. Il conduttore si impegnava a tenere in efficienza i vasi irrigui e a ripristinare alberi e vitigni deperiti o danneggiati. Erano previste penali per i conduttori che avessero danneggiato i prati magri, riservati agli animali del proprietario, o abbattuto alberi vivi o trasportato letame e strame fuori dall’azienda. Al conduttore era vietato allevare oche o pecore, o effettuare servizi di trasporto per conto terzi. In caso di devastazione delle coltivazioni per eventi climatici o bellici, il conduttore riceveva un indennizzo dal proprietario e poteva decidere di recedere dal contratto. La disdetta di locazione (escomio) veniva effettuata solo in caso di furti o di lavori svolti senza rispettare le direttive padronali.

Tali forme di conduzione non incentivavano certo gli investimenti di capitali nei fondi agricoli e le innovazioni si imponevano con molta lentezza. Gran parte della produzione veniva consumata da chi la produceva e dai proprietari, che riuscivano a destinare al mercato solo una parte modesta del raccolto. Fu questa una delle principali cause del processo di inflazione strisciante, solo in parte contrastato dall’ammasso obbligatorio del grano a Brescia, che portò ad un progressivo e diffuso impoverimento nel ‘500 ed ebbe conseguenze devastanti nel primo ‘600.

Le “Giornate” dell’agronomo Agostino Gallo furono un’utile proposta per tornare alla “vera agricoltura” con l’interessamento diretto dei proprietari e il necessario apporto di innovazioni tecniche. Diversi possidenti si trasferirono in campagna non più in qualità di signori in vacanza, ma come gentiluomini rurali attenti a far fruttare al meglio le proprie terre con una conduzione “in economia”, spesso tramite un fattore, che diventò una figura importante nell’attività agricola.

Scarse risultano le notizie documentate sugli allevamenti (v.) locali, inizialmente limitati a suini ed ovini, poi estesi ai bovini. Dalla seconda metà del ‘500 è documentata la presenza a Roncadelle di malghesi o “bergamini”, che scendevano dalle valli a svernare con le loro mandrie per nutrirsi del fieno eccedente nelle cascine di pianura. La loro permanenza stagionale era preziosa per la concimazione dei terreni, prima che si diffondesse la stabulazione.

I lavori più gravosi erano affidati ai braccianti, salariati fissi o giornalieri (assunti nei periodi di più intenso lavoro); vi erano i bifolchi (biólc) che gestivano gli animali da lavoro, i famigli (famèi) garzoni che aiutavano in varie incombenze; èl campér (o daquaröl) per irrigare i prati e tenere in ordine i canali irrigatori. Nei cascinali maggiori c’erano anche alcuni artigiani, oltre al masadùr per uccidere il maiale e al casér per i formaggi. Il lavoratore agricolo più rilevante restò comunque il fattore (fatùr o capoòm), persona di fiducia del proprietario, da cui riceveva il compito di organizzare e sorvegliare le attività di tutti gli altri salariati. Egli doveva possedere buone conoscenze agronomiche e gestionali, dalla cui abilità dipendeva spesso l’esito della conduzione dell’azienda agricola, soprattutto quando il proprietario non aveva competenze in materia o comunque si preoccupava solo della rendita finale lasciando al fattore ampie discrezionalità. In un mondo rurale arretrato e tradizionalista, il fattore rappresentò spesso il motore del cambiamento. Essendo in grado di accumulare risparmio e quindi di migliorare la propria condizione sociale, il fattore (come il fittavolo) riusciva spesso a diventare proprietario.

Nel ‘700 la tradizionale condizione mezzadrile andò regredendo a favore di forme più consone alla conduzione capitalistica (come la “biolcheria”) e la carenza di capitali spinse molti possidenti ad aumentare il canone monetario e ad imporre migliorie agricole a carico dei conduttori; comparve con sempre maggior frequenza l’obbligo di impiantare nuovi filari di gelsi (mùr), che con la bachicoltura (v.) erano diventati molto redditizi per i proprietari e fornivano entrate aggiuntive anche ai contadini. Dai capitolati contrattuali vennero inoltre eliminate le clausole che tutelavano il conduttore in caso di eventi bellici o climatici eccezionali.

Molto usata, anche a Roncadelle, era la colonia parziaria, con cui il contadino forniva il proprio lavoro mantenendo una certa autonomia gestionale e ricevendo una retribuzione correlata al raccolto. Oltre alla mezzadria, con cui si divideva a metà buona parte dei raccolti, veniva a volte adottato il contratto “al terzo” (o “al quarto”): il proprietario forniva, oltre al fondo e agli abitativi rustici, anche il bestiame, le sementi, lo strame, gli attrezzi agricoli, mentre il colono si vedeva sempre più assimilato alla manodopera salariata, ricevendo generalmente un terzo dei prodotti.

Quali fossero i contratti in vigore a Roncadelle nel primo ‘800, lo si deduce da una relazione-censimento del 1818 presentata alle autorità austriache da Scipione Guaineri. Anche se riflette il punto di vista dei proprietari, la relazione offre qualche interessante informazione.

 

Nel Comune esistono delle affittanze, e sono a denaro, non a generi; vi sono alcune Possessioni lavorate ad economia a spese dei Possidenti; la pratica però che prevale è quella dei Coloni parziarj, coi quali il Proprietario divide a metà ogni raccolto dai fondi buoni; dai fondi poi inferiori il granoturco, che è il raccolto più utile ai Coloni, si divide al terzo, cioè due al Colono, ed uno al Proprietario, come per compenso alla maggior fatica nell’agricoltura e la scarsezza del raccolto.

Vi è il costume di somministrare ai Coloni parziarj, oltre la Case per l’abitazione, le Cantine, li Bottami, li Granaj, e porzione di terreno ad uso di Ortaglia, anco delle scorte tanto in Bestiami che in attrezzi rurali e mangìe de’ Bestiami, delle quali il Colono approfitta per l’andamento dei beni, e queste in maggiore o minore quantità secondo l’estensione de’ fondi che lavora.

È costume, anzi è d’obbligazione indispensabile al proprietario di dare gratis al Colono la quantità sufficiente di Prato per il mantenimento del Bestiame necessario al lavoriero della Possessione: per esempio per un lavoriero di trentacinque piò di terreno, che occorrono quattro Bovi, si accorda piò cinque di prato per regaglia al Massaro e così si accorda di seminare in due piò di terra degli erbali denominati Panighetti per la mangìa dei Bestiami, quali dimagriscono assaissimo li fondi, e così il doppio per il lavoriero di una possessione doppia. Similmente ad ogni famiglia di Coloni il Proprietario accorda circa un mezzo piò di terreno ad uso di Ortaglia per il suo bisogno, e di tutto ciò il Proprietario non ritrae alcuna utilità, anzi gli si aggiunge il riflessibile discapito di dover accordare al Massaro tutta la quantità di lettame occorrente per gli ingrassi, tanto del prato che dell’Ortaglia, qual lettame, che si calcola annualmente a quindici carra, dovrebbe invece servire per li fondi arativi, e dare la proporzionata utilità al proprietario stesso; e similmente è costretto dare una porzione di orto ai Lavoranti giornalieri destinati sugli stabili ed a chi sopraintende alla condotta dello Stabile, senza di ciò averne alcun profitto, come sono ancora delle Case che si danno per alloggio ed abitazione a tali lavoranti, dalli quali non si ricava quanto basta per pagare li pubblici Aggravi portati dalle stesse.

 

Il contadino lavorava alle dipendenze dei proprietari o dei fittavoli in cambio di un salario appena sufficiente per la sussistenza della propria famiglia, integrato spesso da una “sovvenzione in frumento, formentone, vino e legna”. Il salario giornaliero a metà Ottocento era in media di 1,70 lire austriache fra aprile e settembre, e di 1,10 fra ottobre e marzo. Gli avventizi spuntavano di solito 10 o 20 centesimi in più, nonché premi speciali per operazioni come la falciatura, pagata per ogni ettaro di erba falciata fino a due volte il salario giornaliero, ma dovevano integrare i lavori precari e brevi loro assegnati con altre attività o con le provvidenze erogate alle famiglie più bisognose dagli enti morali e religiosi (v. Assistenza).

I contratti agrari per le diverse mansioni rimasero di fatto immutati per tutto il secolo, fatta eccezione per gli “adacquaroli”, che in epoca austriaca si specializzarono nella tenuta dei canali irrigui arrivando a retribuzioni non distanti da quelle dei fattori, e per i mandriani, la cui rilevanza andò crescendo negli ultimi decenni dell’Ottocento.

Nella prima metà dell’Ottocento i redditi percepiti dalla maggioranza dei contadini riuscivano a garantire la sussistenza, anche se bastava poco (malattie, eventi climatici sfavorevoli, riduzioni delle offerte di lavoro) per renderli precari e insufficienti; e i meccanismi di ammortamento sociale non sempre bastavano a tamponare la situazione. La crisi della vite e del gelso (per l’oidio e la pebrina) a metà Ottocento trasformò tanti salariati fissi in avventizi, esposti allo sfruttamento. Il problema assunse dimensioni significative con la grande crisi agraria degli anni ’80, dovuta all’ampliamento del mercato mondiale di prodotti agricoli a prezzi più convenienti; i grandi proprietari agrari scaricarono allora sui lavoratori (salariati, mezzadri e piccoli affittuali) sia parte delle perdite legate al ribasso dei prezzi, sia parte dei costi di rinnovamento delle aziende agricole, compreso l’acquisto o il noleggio di macchine agricole, che tra l’altro andavano riducendo la manodopera contadina. Decisiva per la sussistenza fu la quota di prodotti in natura, che divenne molto più alta della retribuzione in denaro. L’effetto fu quello di un generale deterioramento delle condizioni di vita, con conseguente incremento della pellagra e di altre malattie dovute a diete ipovitaminiche. Saltarono gli equilibri sociali mantenuti nei decenni precedenti e le tensioni tra proprietari e lavoratori agricoli andarono aumentando, tanto da determinare nell’ultimo decennio dell’Ottocento agitazioni in tutta la Bassa bresciana, mentre a Roncadelle e dintorni, dove prevalevano contratti compartecipativi, la situazione rimase più tranquilla. Le tensioni portarono agli scioperi di inizio ‘900 e alla formazione di organizzazioni sindacali volte a garantire una distribuzione più equa delle rendite agricole: le Leghe rosse, che facevano riferimento alla Camera del Lavoro e al movimento socialista, e le Leghe bianche guidate dalle Unioni Cattoliche del Lavoro. La loro azione fu a lungo limitata dal fatto che, proponendosi obiettivi diversi, erano in costante rivalità tra loro.

Parte del mondo cattolico, da sempre molto vicino alle realtà rurali, si attivò a sostegno dei contadini. Basti citare la nascita del settimanale “La voce del popolo” nel 1893, che si propose di rappresentare soprattutto “la voce del povero contadino, di questa classe calpestata e negletta, per rimetterla in quell’agiata posizione che merita per lo spirito di sacrificio e di abnegazione con cui si presta a mantenere il vitto e con ciò l’esistenza alle altre classi sociali”.

La piccola “rivoluzione agraria” avviata alla fine dell’Ottocento, quando venne estesa la forma di conduzione capitalistica e furono attuate trasformazioni tecnologiche e organizzative, apportò un miglioramento dei rendimenti agricoli e della questione sociale. Ma occorreva aggiornare i contratti. Dopo una imponente raccolta di dati e rivendicazioni eseguita dalle Unioni cattoliche, la riforma dei patti colonici si ebbe nel 1907, con l’unificazione di una quantità di contratti particolari di tradizione locale, spesso imposti ad arbitrio padronale; vennero previsti aumenti delle retribuzioni in denaro e in natura, l’abolizione delle regalie a favore dei proprietari, il “diritto di zappa” per 9 quintali di mais all’anno, l’iscrizione alla Cassa Nazionale di Previdenza, l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, ecc. Col successivo contratto del 1912 i mandriani furono separati dai bifolchi e carrettieri; capi ed “acquaroli” ottennero specifici riconoscimenti; ai braccianti furono aumentate le retribuzioni per i compiti più importanti (falciatura, mietitura). I nuovi contratti agrari stimolarono la produttività, grazie anche all’uso dei concimi chimici e alle più abbondanti letamazioni, nonché alla possibilità di utilizzare macchine agricole (mietitrici, motoarature).

Durante la guerra del 1915-18 ci si limitò ad un adeguamento delle retribuzioni per mantenere inalterato il potere d’acquisto dei lavoratori agricoli. Finita la guerra, per limitare il problema della crescente disoccupazione, venne introdotto l’imponibile di manodopera, ovvero l’obbligo di assumere un numero minimo di salariati per ogni piò di terra lavorata. Il rientro dei reduci comportò anche la legittima richiesta di ottenere la distribuzione delle terre, promessa in occasione della partenza per il fronte; richiesta che si scontrò con la volontà degli agrari e dei conduttori di fondi, che miravano invece ad aumentare i profitti, anche attraverso una riduzione del costo del lavoro. Con l’espulsione dalle fabbriche, molti lavoratori non qualificati si riversarono nelle campagne, dove però le remunerazioni tendevano al ribasso, e si riaccese uno scontro di interessi tra contadini e proprietari o conduttori, che i provvedimenti governativi emanati a favore delle campagne negli anni precedenti avevano temporaneamente sopito.  

I nuovi patti colonici del 1919 per la provincia bresciana, che videro il prevalere delle proposte delle Unioni cattoliche (con oltre 30.000 iscritti) su quelle del sindacato socialista (15.000 iscritti), comportarono aumenti retributivi e nuova regolamentazione degli orari di lavoro, la garanzia di un minimo salariale (anche in caso di malattia certificata fino a 40 giorni), il diritto di zappa per 13 quintali di mais, un litro di latte gratuito al giorno, una abitazione “proporzionata ai bisogni igienici e morali della famiglia”, nonché porcile, pollaio, orto e una quantità di legname e di bachi da seta. L’imponibile di manodopera fu fissato a 10 occupati ogni 100 piò di terra lavorata.

Nel 1920 fu aumentato il livello retributivo, vennero confermate le 8 ore giornaliere di lavoro, l’età minima per l’assunzione fu elevata a 13 anni, l’imponibile di manodopera aumentato a 11 uomini. Venne poi prevista un’ulteriore espansione del progetto compartecipativo (per i piccoli affittuali e i mezzadri) promosso dal sindacato agrario cattolico e dalla Cattedra ambulante di Agricoltura, ma questa richiesta incontrò la ferma ostilità dei datori di lavoro e provocò scontri violenti tra scioperanti e forze dell’ordine. La conflittualità andò aumentando nei due anni successivi, quando gli scioperanti dovettero scontrarsi con i “liberi lavoratori” esterni, che intendevano sostituirli, e con gli squadristi fascisti. Infine il sindacato corporativo fascista assunse la leadership del mondo contadino bresciano eliminando le Leghe rosse e sottraendo migliaia di iscritti alle Leghe bianche. Venne quindi abolita ogni libertà sindacale e imposte soluzioni corporative.

L’aumento di redditività nell’agricoltura in epoca fascista era dovuto anche al basso livello delle retribuzioni, che per i salariati fissi rimase statica dal 1919 al 1939 e per gli avventizi la paga oraria raggiunse il livello già registrato nel primo dopoguerra solamente nel 1940. Il contratto mezzadrile venne esaltato perché puntava alla collaborazione tra categorie sociali opposte e fu disciplinato con la Carta della mezzadria nel 1933.

Dalle rilevazioni del Comune di Roncadelle risulta che, intorno al 1940, nelle 35 aziende agricole con almeno 3 ettari di superficie coltivata, lavoravano 165 salariati fissi (22 mandriani, 8 manzolai, 49 bifolchi e 86 generici), 40 avventizi (di cui 27 donne) e 59 familiari di conduttori.

Durante la seconda guerra mondiale, l’agricoltura subì una prevedibile riduzione della produttività e la popolazione cercò di arrangiarsi come poteva, anche in conseguenza della perdita di potere d’acquisto dei salari. Finita la guerra, si manifestarono segni di crisi e disagio sociale, che nelle aree rurali era accentuato dalla progressiva meccanizzazione delle campagne e dal rifiuto dell’imponibile di manodopera da parte padronale. Le basse remunerazioni dei salariati causarono scioperi e diffuse agitazioni sociali, che assunsero a volte forme violente, come accadde a Roncadelle nel giugno 1949.

Per ricordare quell’avvenimento, ricostruito in base a testimonianze orali e ad articoli di giornale, si fa riferimento al racconto pubblicato sulla “Locandina” della Biblioteca Civica nel giugno 1984.

 

La lotta, divenuta famosa come “sciopero dei 37 giorni”, era iniziata il 18 maggio 1949 dopo un periodo di astensione chiamato della “non fienagione” e interessò tutta la Bassa bresciana. Nel settore agricolo lo sciopero doveva tener conto di diversi fattori: era inopportuno estenderlo ai lavori di stalla e ai lavori urgenti perché poteva provocare conseguenze negative o irreparabili per tutti; inoltre, era inutile indire scioperi durante la stagione morta per l’attività agricola. Ed era anche necessario impedire che altri lavoratori potessero sostituire gli scioperanti, possibilità favorita dall’elevata disoccupazione. A Roncadelle lo sciopero, coordinato dai capilega Angelo Oneda (Lega rossa) e Felice Bianchetti (Lega bianca), ebbe larga adesione tra i lavoratori della terra, anche se in alcune cascine si sopperiva di notte a ciò che non si poteva fare di giorno. Il fulcro dello scontro violento fu Villa Nuova, una delle più estese e produttive aziende agricole locali, il cui proprietario era l’ex podestà del paese Mario Lombardi, 66 anni, abile ed energico amministratore, diversamente giudicato dai suoi dipendenti e dai Roncadellesi. Il Lombardi si era distinto nella “battaglia del grano”, classificandosi nel 1932 al terzo posto nella graduatoria delle grandi aziende agrarie bresciane e ricevendo nel 1935 la Stella d’Argento di 2° grado al merito rurale. In quel periodo a Villa Nuova si producevano circa 550 q. di grano e 400 q. di tabacco. I lavoratori della proprietà Lombardi (per lo più vicini alla Lega bianca) si comportarono con esemplare compattezza. Si era convenuto che le donne e i ragazzi potessero dedicarsi indisturbati ai lavori richiesti dal tabacco e lo sciopero non venne esteso ai lavori di stalla. Urgeva tagliare il maggengo e zappare i campi di granoturco e si avvicinava il momento della mietitura del frumento. Nonostante il Lombardi avesse chiesto ed ottenuto l’intervento di alcuni “liberi lavoratori” di Travagliato e di Brescia, gli scioperanti si limitavano a controllare la situazione. Ma la lunga durata della lotta rendeva sempre più tesa la situazione. Il 6 giugno, di buon’ora, guidati dal travagliatese Defendente Zini detto “Fendo” sul suo “Guzzino”, si presentarono a Villa Nuova una settantina di “liberi lavoratori” e disoccupati, chi in bicicletta, chi a cavallo, chi a piedi. Altrettanti ne arrivarono in seguito ed il Lombardi, quantunque il numero fosse esuberante, decise di impiegarli tutti per una giornata nei suoi campi a zappare i terreni adibiti alla coltivazione del granoturco ed a falciare l’erba. Gli scioperanti di Roncadelle si sentirono offesi non tanto dal numero rilevante di “crumiri” assoldati, quanto dal loro passaggio in massa nel paese con aria spavalda. “Non abbiamo paura di nessuno” ripetevano minacciosi, armati di forche e di due pistole, e cantavano provocatoriamente. A questo punto gli scioperanti decisero di raccogliere la sfida e di impartire una lezione a coloro che stavano vanificando il lungo sciopero. Si tenne una rapida consultazione di capilega a Brescia e si decise di organizzare una spedizione punitiva raccogliendo uomini da varie zone della Bassa bresciana. Ne arrivarono alcune centinaia, armati di bastoni e attrezzi rurali, da Bagnolo, Flero, Fornaci, Torbole, Azzano, Lograto, Castegnato, ecc. Per evitare l’intervento della forza pubblica, si interruppero le comunicazioni telefoniche sradicando il palo del telefono presso il ponte sul Mella. La tensione andava arroventandosi; e aumentava anche la preoccupazione dei più responsabili. Il parroco, don Carlo Vezzoli, ed il curato, don Giacomo Pernigo, si consultarono con alcuni scioperanti e decisero di intervenire per evitare una battaglia che poteva avere gravi conseguenze. Dapprima provò il curato a parlamentare con i “crumiri”, ma senza esito. Il parroco parlò con il Lombardi, che lo respinse sdegnosamente. Insieme alle lacrime di amarezza del parroco, cadevano le residue speranze di comporre la situazione in modo incruento. A quel punto gli scioperanti passarono all’attacco secondo un piano predisposto; si divisero in tre gruppi per accerchiare i “crumiri” che stavano lavorando tenendosi sempre accanto le forche: un gruppo avanzò dall’autostrada, uno dalla strada del Violino e un altro dalla statale. Quando, intorno alle 10, partì il primo attacco, i rintocchi di campana a martello avvisarono la popolazione del pericolo imminente: le lezioni scolastiche vennero interrotte e tutti si ritirarono in casa; dall’alto del campanile alcuni parrocchiani seguivano la vicenda. Erano circa 200 scioperanti contro una settantina di “crumiri”. Don Pernigo tentò ancora una volta di evitare lo scontro alzando un crocefisso e invitando i “crumiri” a ritirarsi pacificamente, ma non venne ascoltato. Prese le forche, questi riuscirono a respingere i primi attaccanti, non accorgendosi di essere accerchiati. Quando videro arrivare gli altri due gruppi, i “crumiri” sorpresi e spaventati cercarono scampo nella fuga abbandonando i propri attrezzi. Oltre a colpire gli avversari, gli attaccanti ruppero le loro biciclette e strapparono i finimenti ai loro cavalli. Presso l’autostrada vi erano due “crumiri” armati di pistola, che vennero costretti alla fuga da un gruppo di donne, inseguiti fino alla “pesa” della contrada di Sotto e picchiati a sangue. Il Lombardi che, armato di pistola, stava seguendo a cavallo i lavori del tabacco, resosi conto della situazione, si rifugiò precipitosamente nell’ultima cascina ad ovest di Villa Nuova (ora demolita) nascondendosi sotto la greppia dei cavalli. Alla fine del parapiglia vennero ricoverati al pronto soccorso di Brescia quindici “crumiri” (quasi tutti di Travagliato), tra cui Fendo Zini, con prognosi di guarigione dai 6 ai 20 giorni. Le diagnosi parlavano di “fratture”, “ferite lacerocontuse”, “ematomi”, “contusioni”, “abrasioni”. Probabilmente altri feriti preferirono curarsi a casa. Altri danni collaterali della battaglia furono la moto Guzzi di Zini messa fuori uso, due cavalli con le gambe spezzate, diverse biciclette scomparse o distrutte. Quando, intorno alle 11, arrivarono da Brescia gli agenti di pubblica sicurezza, tutto era tornato improvvisamente tranquillo. I carabinieri di Travagliato denunciarono i due capilega Oneda e Bianchetti. Sembra che anche il sindaco comunista di Roncadelle, Angelo Manenti, che si rese irreperibile per alcuni giorni, fosse coinvolto nella vicenda. A mezzogiorno il Lombardi versò 97.000 lire ai rappresentanti dei “crumiri” per le ore di lavoro effettuate e 92.600 lire per rimborso danni a biciclette e scarpe. Nei giorni seguenti il Lombardi fece arrivare nuovamente “lavoratori avventizi straordinari” protetti da numerosi agenti della forza pubblica e gli scioperanti li lasciarono fare. Il 23 giugno terminò lo sciopero con la stipulazione di un accordo nazionale preliminare, che portò poi al primo patto collettivo nazionale dei lavoratori agricoli.                    

 

L’11 maggio 1950 venne stipulato un patto collettivo nazionale per i braccianti agricoli avventizi e il 31 luglio 1951 quello per i salariati fissi del comparto agricolo, che si rifacevano per lo più alle norme provinciali già esistenti e che vennero poi ulteriormente migliorati. Dagli anni ’50 i salariati agricoli furono difesi soprattutto dalla Fisba Cisl (ispirazione cattolica) e da Federterra (ispirazione comunista). Uno dei problemi riguardava le abitazioni rurali, quasi sempre vetuste ed antiigieniche. Su proposta della Fisba, nell’ottobre 1960 la Camera dei Deputati approvò un impegno finanziario decennale di 150 miliardi di lire per la costruzione di case coloniche, alcune delle quali furono realizzate a Roncadelle (Villa Nuova); si scelse di costruire le abitazioni vicino all’abitato per consentire l’integrazione dei lavoratori agricoli nella comunità locale. Il sindacato Federterra si impegnò nella difesa dell’occupazione e per l’allargamento della base produttiva cercando di eliminare gli aspetti compartecipativi e la componente in natura della retribuzione; dagli anni ’60 riconobbe l’esigenza di riclassificare le varie figure professionali presenti nelle cascine con diverse funzioni specializzate, finché nel 1973 venne introdotta la definizione di “operaio agricolo” per tutti.

Negli anni ’60 andò aumentando l’esodo dalle campagne, facilitato dalla crescente meccanizzazione, dall’impiego di moderne tecniche colturali, dalla razionalizzazione degli allevamenti e dei lavori di stalla, ed agevolato dalle insoddisfacenti condizioni di vita dei contadini rispetto ai nuovi standard di benessere che si andavano affermando.

Per quanto riguarda i contratti di mezzadria, la Legge n. 756 del 15 settembre 1964 vietò la stipulazione di nuovi contratti e stabilì che i costi fossero ripartiti al 50% tra mezzadro e proprietario, ma che la quota dei prodotti e degli utili spettanti al mezzadro non fosse inferiore al 58%. Infine, la Legge n. 203 del 3 maggio 1982 stabilì la conversione in affitto dei contratti mezzadrili. Scomparve così un sistema di conduzione di tipo associativo, che tanta parte aveva avuto nella storia locale.

Negli ultimi decenni a Roncadelle la conduzione diretta è diventata il tipo organizzativo prevalente, sia nelle aziende agricole minori, dove il conduttore presta lavoro manuale con l’eventuale ausilio di manodopera familiare o extrafamiliare, sia nelle imprese maggiori, dove l’opera del conduttore e dei suoi familiari dirige l’azienda, mentre i lavori manuali sono affidati a salariati ed eventuali compartecipi. L’affittanza è andata diminuendo a favore delle aziende in proprietà totale o parziale: nel 2000 le aziende di Roncadelle in proprietà erano 25, quelle in affitto 8 e quelle miste 15; e vari fittavoli sono diventati proprietari di terre che avevano in gestione. Gli addetti locali all’agricoltura, che nel 1951 erano 388 (un terzo della popolazione attiva), nel 2001 sono scesi a 61 (meno del 2% della popolazione attiva). Le giornate lavorative sono andate diminuendo, sia per la riduzione (a volte forzata) delle superfici messe a coltura, sia per la meccanizzazione capillare, le concimazioni diffuse, la selezione e l’ibridazione delle sementi, oltre che della crescente automazione, che sembra realizzare l’antico sogno del contadino di “tornare a casa con la camicia asciutta”. Ora bastano una macchina operatrice e un trattore per realizzare il lavoro prima svolto da decine di braccianti. La giornata senza limite di orario della fatica contadina è stata dissolta e gli immigrati extra-comunitari hanno cominciato a sopperire ad una difficoltà di reperimento della forza lavoro necessaria, soprattutto nelle stalle, anche se il rinnovato interesse per la campagna da parte dei giovani sembra promettere nuovi sviluppi. Il sudore profuso nell’attività agricola per secoli e le lotte sostenute per una condizione di vita più dignitosa sembrano appartenere ad un mondo lontano, ma non vanno dimenticate, perché sono parte integrante della storia locale.