CULTO DEI MORTI

Martedì, 4 Novembre, 2025 - 10:00
Ufficio: 
Cultura e Sport
Data pubblicazione: 
Martedì, 4 Novembre, 2025
Area Tematica: 

Nascita e morte delimitano la vita, come l’alba e il tramonto delimitano il giorno. Nella sua lunga storia l’uomo ha sempre prestato grande attenzione alla morte che, pur essendo parte di un ordine naturale, crea istintive paure e grandi vuoti. La morte è stata affrontata in vario modo nel passato, anche per esorcizzarla, e nuovi modi si prospettano ora. Il culto dei morti, che è tra le più antiche testimonianze di attività simboliche e spirituali dell’uomo, riflette in fondo il culto per la vita.

 

Il culto dei morti, che risale alla preistoria, trae origine dall’idea di una vita oltre la morte ed è ancora profondamente radicato nell’animo della popolazione, che continua a frequentare i cimiteri, a far celebrare messe di suffragio, a chiedere aiuto ai defunti (senza parlare dei numeri da giocare al lotto).

Per quanto ci riguarda, le tradizioni legate al culto dei morti derivano innanzitutto dalla cultura celtica, mai completamente scomparsa. I Celti credevano infatti che il rapporto fra il mondo dei vivi e quello dei morti non fosse mai completamente interrotto e, in determinate circostanze, si potesse ristabilire. In particolare, credevano che il ritorno dei defunti avvenisse in occasione di uno dei capodanni del calendario celtico, ossia il 1° novembre, quando la barriera che divideva il mondo dei morti da quello dei vivi si assottigliava al punto da permettere ai morti, che lo desideravano, di tornare sulla Terra. I nostri antenati, nel timore che i morti potessero portarli nel loro mondo, cercavano di tenerli lontani; gli spari e i botti, che ancora si sentono rimbombare a fine anno, traggono probabilmente origine da tale credenza. C’era anche l’usanza, che si è mantenuta a lungo, di svuotare una grossa zucca, ricavarvi alcuni fori per farla somigliare ad un teschio umano e, dopo avervi introdotto una candela accesa, di esporla fuori dall’abitazione, in modo che di notte potesse spaventare i morti. Questa tradizione, portata in America dagli Irlandesi nel secolo XIX, è stata rilanciata con la festa di Halloween (contrazione di All Hallows’ Eve, “vigilia di Ognissanti”), trasformata poi in una sorta di carnevale fuori stagione, dai risvolti consumistici.

Anche l’usanza di conservare ed esporre i teschi dei morti, arrivata fino ai nostri ossari risorgimentali, che oggi ci appare irriguardosa e macabra, risale ad un’abitudine celtica, che dava ai teschi una particolare importanza, tanto da appenderli con nastri agli alberi dei boschetti sacri. Inoltre, durante le veglie funebri, si usava trascorrere la notte bevendo, suonando e cantando in compagnia dei morti.

La popolazione ha sempre provato un misto di timore e di rispetto per i defunti; se da una parte si temeva che potessero fare del male ai vivi (per invidia o per qualche vendetta), dall’altra si esprimeva uno spirito di accoglienza nei loro confronti, che arrivava al punto da apparecchiare il tavolo anche per il defunto per qualche tempo dopo la sua morte. In alcune zone si usava, fino a tempi recenti, lasciare il lume acceso e il ceppo sul fuoco perché, tornando in casa, il defunto potesse scaldarsi. Altre antiche tradizioni erano il corredo funebre, che veniva deposto nella tomba (vivande per il viaggio nell’aldilà, oggetti particolarmente cari al defunto o che ne definivano il ruolo sociale) o l’usanza di accendere dei falò davanti ai cimiteri o di banchettarvi all’interno, in una ricerca di conviviale unione.

Il banchetto per il defunto, che i pagani organizzavano nel giorno del suo compleanno, per le comunità cristiane diventò un rito eucaristico, che si svolgeva nel giorno anniversario della morte, il vero dies natalis, l’inizio della “vera vita”. Queste celebrazioni nei primi secoli dell’era cristiana avevano un carattere festoso, nella convinzione che il fedele morto nella comunione con il Cristo fosse ammesso alla visione beatifica. Soltanto in seguito prevalse l’idea dell’incertezza circa la sorte del defunto e l’eucarestia assunse un valore propiziatorio, mentre nel rito funebre venne inserita la messa.

Riti cristiani divennero così la veglia funebre, la messa esequiale e la sepoltura in luogo consacrato. Il cimitero (“luogo di riposo”) con la consacrazione diventò “camposanto”, che veniva generalmente ricavato in un’area nei pressi di una chiesa ed era meta frequente di visite da parte dei fedeli, che vi depositavano fiori e ceri. Venivano sepolti all’interno delle chiese solo personaggi socialmente elevati e, dal sec. XIII, anche quelli con particolari meriti: benefattori o membri di congregazioni religiose.  

La festa di Ognissanti, originariamente celebrata il 13 maggio, venne fissata il primo giorno di novembre nell’835, mentre la commemorazione di tutti i defunti cominciò ad essere celebrata il 2 novembre intorno all’anno Mille e tale data venne poi estesa in tutto il mondo cattolico durante il Basso Medioevo. Nello stesso periodo si andò diffondendo la dottrina del Purgatorio, alla quale Tommaso d’Aquino aveva fornito una base teologica, anche se l’idea di un’espiazione temporanea dopo la morte risale ai Padri della Chiesa. Tale dottrina, definita nel secondo Concilio di Lione (1274) e confermata nei successivi Concili di Firenze e di Trento (ma rifiutata dai protestanti), stabilì quindi l’utilità delle preghiere dei fedeli viventi per alleviare le pene dei fedeli defunti.

Da allora si diffusero le celebrazioni di messe di suffragio, la nascita di confraternite intitolate alla Buona Morte o al Suffragio. Anche le altre confraternite (v.), come quella del Ss. Sacramento e quella del s. Rosario, costituite a Roncadelle rispettivamente nel 1540 e nel 1609, avevano tra i loro obblighi le preghiere per i morti, la partecipazione ai funerali, la celebrazione di offici funebri e godevano di particolari indulgenze. A Roncadelle, accanto alla chiesa parrocchiale (v.) doveva esserci un cimitero, dove venivano inumati i fedeli defunti. Dopo il rifacimento dell’edificio alla fine del ‘600, vennero sepolti sotto il pavimento della chiesa alcuni personaggi, tra cui Chiara Camilla Porcellaga, morta nel 1698, ultima erede della dinastia che aveva dominato il paese per oltre tre secoli.

Non sappiamo come fosse organizzato il cimitero: vi era forse una fossa comune, ma dai registri parrocchiali sappiamo che vi erano alcuni sepolcri individuali, un sepolcro riservati ai membri delle congregazioni e un sepolcro per i bambini morti in tenera età.

Nel ‘700 si diffuse la pratica dei “Tridui”, tre giorni di preghiera e di predicazione dedicati al ricordo e al suffragio dei defunti; questa devozione era nata a Brescia nel 1716, dopo la guerra di successione spagnola, che aveva interessato anche Roncadelle e comportato molte vittime in territorio bresciano. Per l’occasione veniva allestita la “macchina del Triduo”, un apparato scenografico in legno dorato, illuminato da centinaia di candele, al cui centro era collocato l’ostensorio. La devozione intendeva affermare la validità delle preghiere di suffragio per le anime del Purgatorio, in opposizione alla teologia protestante. A Roncadelle esisteva già all’inizio del ‘700 una “macchina” per l’esposizione del SS.mo, con due “scalinate depinte, un pavione depinto che copre tutta la larghezza del choro, legnami ferri e corde per tener in piedi detto pavione, un baldacchino grande sopra detto pavione con sue mazze e franze, due tele depinte a fiorami, due banchette a scalini depinte”.

I “pòer mórcc” venivano pregati anche come intercessori e per loro si aveva un ricordo ogni sera, prima di coricarsi, quando dal campanile arrivava l’ultimo rintocco della giornata.

La morte di un parrocchiano, segnalata dal suono delle campane (v.), coinvolgeva tutta la comunità. Alla sera c’era la veglia al cadavere, ben composto nel suo letto; si recitava il rosario, la preghiera cattolica più popolare. Nessuno osava gridare, né tantomeno cantare, quando c’era un morto nei dintorni. Il funerale, in genere, non era molto solenne: semplici casse di legno costruite da falegnami locali, erano ricoperte da un drappo nero ricamato a fregi d’oro. Ma vi erano differenti gradi di solennità. I funerali di prima classe, richiesti dalle famiglie più facoltose, avevano diritto a più sacerdoti celebranti, allo “strato” di velluto nero sulla bara, a molte candele e alla presenza dei rappresentanti delle congregazioni con i loro vessilli; il defunto ricco arrivava alla chiesa su una carrozza trainata da cavalli e guidata da un cocchiere in livrea; e il rito assumeva aspetti spettacolari.

Si usava distribuire ai partecipanti delle candele di cera, tanto più grosse quanto più benestante era il defunto, ed era un dono sempre gradito, utile anche per l’illuminazione della casa. La partecipazione ai funerali era corale e costituiva un momento di coesione sociale: esprimeva solidarietà alla famiglia del defunto e riaffermava le credenze etiche e religiose della comunità. L’orazione funebre ha sempre ricordato con benevolenza la figura del defunto. Chi lo aveva conosciuto ne perpetuava il ricordo e si usava dare il suo nome ai discendenti come a volerne prolungare la vita. Il lutto dei familiari e dei parenti stretti durava a lungo, variando a seconda del grado di parentela con il defunto, e comportava l’uso di abiti neri, che spesso le vedove usavano indossare poi per il resto della loro vita. Con la conservazione del ritratto si cercava di perpetuarne l’immagine fisica; e la riproduzione fotografica ha poi esteso a tutti questa possibilità.

Cesare Arici, incaricato di compilare l’Inchiesta napoleonica sulle costumanze popolari (1811),  trattando della ricorrenza dei morti nel Dipartimento del Mella scrisse: “Le donne vestite a lutto, dopo l’essere state alla chiesa, si mettono assieme inginocchiate a pregare per le vie e gli uomini vanno ai campisanti e rivolgono sossopra il terreno che copre le ossa de’ loro congiunti e rifanno le croci o tolte o sconnesse; e quel giorno donano tutte le famiglie ai poveri minestre e pane di miglio, che dicono il ben de’ morti”. “Il bene dei morti” era ciò che rimaneva dell’usanza dei banchetti funebri, antico rito apotropaico, poi sostituito dal “pan dei morti” e da altri dolci distribuiti il 2 novembre.

Durante il periodo napoleonico molte cose cambiarono, anche nella gestione delle parrocchie e dei cimiteri. Le fabbricerie, che amministravano i beni parrocchiali e facevano rispettare le norme per il culto religioso, vennero sottoposte al controllo statale affidandone la nomina ai prefetti.

Nel 1808 scoppiò a Roncadelle un aspro contrasto tra il parroco, don Giacomo Fisogni, e Scipione Guaineri (nominato “primo fabbriciere” della parrocchia) proprio a causa delle nuove norme sui funerali: in occasione del decesso della moglie dell’oste, le campane erano state infatti suonate “a doppio” contravvenendo ad una disposizione che riservava tale trattamento alle autorità civili e religiose; il sagrestano venne licenziato e la comunità locale si divise in due fazioni contrapposte; gli animi si surriscaldarono a tal punto da far temere lo scoppio di disordini in occasione di una processione religiosa; solo dopo vari mesi, grazie all’intermediazione del vescovo di Brescia, si riuscì a riportare la pace nella comunità.

L’attuale cimitero di Roncadelle venne realizzato nel 1813, in seguito all’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804 che, per motivi igienico-sanitari, imponeva la sepoltura dei cadaveri in aree distanti dai centri abitati e ne proibiva la tumulazione all’interno delle chiese. L’editto, esteso al Regno d’Italia nel 1806, venne regolamentato negli anni successivi, specificando le misure delle fosse e la distanza tra una fossa e l’altra, raccomandando una battitura efficace del terreno sopra la bara, vietando lapidi sepolcrali sopra le fosse (per non ritardare la decomposizione della salma) e impedendo l’ingresso di animali all’interno del cimitero. Per evitare discriminazioni, le sepolture dovevano essere tutte uguali, identificate solo da “nome, cognome, età e giorno di morte”, ma per i defunti illustri era prevista un’eccezione, perché potevano avere un epitaffio sulla tomba.

L’incarico esecutivo dell’editto e la gestione dei cimiteri vennero affidati ai Comuni.

Il camposanto di Roncadelle era inizialmente un semplice prato recintato di 1300 mq, in via della chiesa (attuale via Marconi) allora in aperta campagna, ad oltre 200 metri di distanza dall’abitato. Nel gennaio 1814 si cominciò ad inumare le salme nel nuovo cimitero, dopo aver chiuso i sepolcri esistenti presso la chiesa parrocchiale.

I morti mettevano paura. Nessuno avrebbe osato, di notte, recarsi al cimitero, né passarvi accanto. Nei bambini si incuteva il terrore per i morti, che potevano tornare a tirare le gambe ai vivi, e nelle lunghe serate invernali si raccontava spesso di strane apparizioni nei pressi dei cimiteri e di morti che tornavano sulla terra, oltre a storie e leggende create appositamente per incutere paura.

Il cimitero di Roncadelle venne poi circondato da alti muri perimetrali, lungo i quali vennero ricavati i loculi per la tumulazione di alcuni defunti, identificabili da un’apposita lapide. Verso la fine dell’Ottocento il “tumulatore” era Luigi Gennari, che nel 1892 venne sostituito da Paolo Civettini con un salario annuo di 50 lire. I feretri erano forniti dai falegnami locali Giuseppe Conti e Luigi Fisogni. Nel 1890 il parroco don Giulio Tadini propose la costruzione di una cappella all’interno del cimitero e dieci anni dopo venne deliberato il sussidio comunale per la sua erezione, dove vennero poi tumulati alcuni sacerdoti morti a Roncadelle o molto legati alla comunità locale.

Il monumento ai caduti (v.) fu inaugurato nel settembre 1921, con incisi 36 nomi di vittime della prima guerra mondiale. Costato 6.000 lire (raccolte in gran parte da un comitato appositamente creato), il monumento venne collocato sul viale d’ingresso al cimitero; per l’occasione la sig.ra Maria Berardi donò 100 mq di terreno al Comune. Dopo un’adeguata sistemazione, il 20 maggio 1923 l’area comunale prospiciente il cimitero fu denominata “Parco della Rimembranza”.

Lo stradino comunale era anche “necroforo”; compito che nel 1930 era svolto da Francesco Botticini con uno stipendio annuo di 2.763 lire. Nel 1932 il cimitero venne allargato e abbellito, facendo spazio sia alle inumazioni che alle tumulazioni e predisponendo anche tombe di famiglia disposte “a parete”. Nell’aprile 1945 vennero sepolti nel Parco dei Caduti quattro soldati tedeschi uccisi in scontri armati a Roncadelle e i loro parenti ringraziarono poi il Comune per il rispetto loro riservato e per le “mani pietose” che deponevano fiori sulle loro tombe da parte di “modeste ma sublimi figure di donne, forse colpite dallo stesso dolore che tuttora grava lancinante nel cuore delle Madri che da lontano, in altra terra, pregano per la pace dei loro Caduti” (Salvatore Fiandra, 1956).

Sul monumento ai Caduti vennero incisi allora altri 27 nomi di caduti e dispersi delle guerre volute dal fascismo (v.) e della guerra di liberazione, mentre altri caduti vennero poi ricordati con appositi cippi nel Parco delle Rimembranze.

Man mano che la popolazione aumentava, si rese necessario dotare il cimitero di nuovi spazi. Così l’amministrazione Tobanelli negli anni ’70 predispose 275 nuovi loculi e, negli anni ’80, prevedendo una rotazione ogni 25 anni, ne realizzò altri 913, insieme a 126 ossari e a 8 nuove tombe di famiglia.

Nel 2.000 il cimitero disponeva di oltre 3.000 posti (di cui 2.351 loculi, 368 fosse e 258 ossari) e, per fronteggiare una media di 52 sepolture all’anno, l’amministrazione Orlando nel 2009 progettò un nuovo ampliamento sul lato nord (nell’area un tempo occupata dalla ditta Elettroplastica) e si procedette ad una serie di esumazioni ed estumulazioni per recuperare la parte storica del cimitero. Venne così aumentata la capacità ricettiva del cimitero e realizzati altri ambienti di servizio necessari.

Inoltre, sul lato della cappella, sono stati ricavati loculi per accogliere le ceneri di defunti cremati; la pratica della cremazione, consentita anche dalla Chiesa cattolica dal 1963, si è andata diffondendo, come anche le richieste di cellette per accogliere le urne cinerarie, che vengono a volte inserite in loculi già occupati dal coniuge o da un altro familiare.

La Legge n. 130 del 30 marzo 2001, che regolamenta la cremazione, dispone la consegna delle ceneri del defunto ai familiari, consentendo di conservarle in casa in apposita urna col nominativo, o di disperderle in spazi aperti, in aree private o in spazi riservati all’interno dei cimiteri.

Molte cose stanno cambiando nella gestione del culto dei morti. Aumentano i funerali civili, oltre alle cremazioni. Alcuni preferiscono un rito privato o chiedono espressamente che non vengano portati fiori. L’esposizione della salma avviene sempre più spesso in Case del Commiato, appositamente predisposte in varie località, che offrono anche una serie di servizi funebri. Le visite al cimitero si riducono spesso al 2 novembre e i fiori recisi sono spesso sostituiti da fiori artificiali. Le imprese funebri si occupano di tutti gli aspetti burocratici e logistici del servizio funebre: dalla preparazione della salma e della camera ardente all’allestimento floreale e decorativo del rito, dalla scelta della bara e del mezzo di trasporto alla stampa del necrologio e della foto ricordo. Il rito funebre viene sempre più spettacolarizzato con videoriprese e con applauso finale. Ed è cambiato anche l’atteggiamento nei confronti della morte, che l’allungamento della vita media e il progresso medico sembrano allontanare sempre più dalla nostra esistenza, ma che viene evocata come diritto in caso di grave malattia incurabile. Aumenta infatti il rifiuto della sofferenza, ritenuta priva di senso, e persino il rifiuto del lutto. Della morte si parla sempre meno e persino le parole del cordoglio (“dolore del cuore”) appaiono sempre più frettolose e vuote.

Inoltre, le nuove tecnologie, che tendono a demolire i dualismi reale-virtuale e passato-presente, sembrano pronte a sostituire gli antichi riti e ad occupare spazi un tempo riservati alla religione, ponendo oggi nuove problematiche, che riguardano sia il patrimonio digitale che costituisce la memoria della nostra esistenza, sia la possibilità di continuare a parlare con i defunti tramite l’intelligenza artificiale. Si tratta di una rivoluzione antropologica, che solleva enormi problemi psicologici, emotivi, giuridici ed etici.

E, se le risposte date finora al problema della morte appaiono insufficienti a molti, non resta che puntare su ulteriori conoscenze, che sollevino (almeno un po’) il fitto mistero che ancora circonda la morte e rendano meno angosciosa la vita umana.