SAVOLDO

La villa Savoldo, dimora signorile che da quattro secoli è presidio e ornamento della strada che da Roncadelle conduce a Torbole, è uno dei gioielli più preziosi del patrimonio artistico locale.
Al Savoldo è legato anche il romantico ricordo di duelli, che vi si tenevano all’alba, lontano da occhi indiscreti, tra nobili bresciani, prima che tale pratica venisse abolita. E va ricordata anche la sua funzione di “lazzaretto” svolta nell’Ottocento, in occasione delle periodiche epidemie (v.) locali.
Le informazioni qui riportate utilizzano anche una ricerca documentaria condotta dal dott. Franco Carpi alla fine del ‘900.
La villa
L’edificio venne eretto nel primo ‘600 dal cav. Paolo Savoldi, come sta a testimoniare anche la lapide in marmo di Botticino (cm 80x70 circa) posta sulla facciata nord della dimora con la seguente iscrizione: ALTISSIMO LAUS ET GLORIA HAS AEDES PRAEDIAQ. CENTUM ET OCTOGINTA IUGERUM VIRTUTE QUAESIVIT PAOLUS SAVOLDUS I : C POSTERIS ARGOMENTUM (Lode e gloria all'Altissimo. Questa casa e proprietà di 180 iugeri si procurò con virtù Paolo Savoldo, giudice di collegio. Testimonianza ai posteri). Sulla lastra è inoltre incisa, accanto al titolo di giudice di collegio, la corona di Cavaliere.
Nato tra il 1578 e il 1580 dal famoso medico bresciano Lodovico Savoldi (figlio di Lucia Guaineri) e da Veronica Palazzi, Paolo Savoldi conseguì la laurea in legge a Padova e divenne giudice di collegio a Brescia, dove ottenne il titolo nobiliare di cavaliere e dove acquistò un prestigioso palazzo in via S. Francesco, affrescato dal Gambara. Dai nobili Chizzola, egli acquistò circa 170 piò di terra coltivabile posti a sud della “Strada regale di Orzinuovi” verso Onzato. Fu proprio per condurre tale proprietà agricola che fece erigere, intorno al 1620, il “Savoldo”, una dimora degna del suo prestigio, dove usava trascorrere la stagione estiva. "Possedo in oltre sopra il territorio di Roncadelle una casa et cortile per uso da patrone, massaro et malghese, con circa un piò di brolo; confina a mezzodì la strada regale, a sera una stradella, a monte li Signori Porcelaghi, et fenisce verso mattina in niente". Così il "dottore di legge" Paolo Savoldo documentò, nella polizza d'estimo dell'8 Luglio 1626, l'avvenuta costruzione degli edifici, la cui fabbrica si può ipotizzare inizi dopo il 1617, dato che in una sua polizza di quell'anno non compare tale proprietà.
La villa, compresa da Fausto Lechi nel suo fondamentale censimento delle più interessanti dimore signorili bresciane, conserva gli elementi tipici dell’architettura minore cinquecentesca. Il semplice modulo costruttivo della struttura (un rettangolo di circa 200 mq) è arricchito all’esterno da una gradevole decorazione in pietra di Sarnico, che riveste su tre lati la parte emergente della cantina e forma una greca lungo gli spigoli delle pareti. La solare superficie della facciata principale, che dà su un prato alberato (brolo), è ritmata dalla simmetria delle quattro finestre rettangolari del piano rialzato, dalle cinque finestrelle quadrate dell’ex granaio e, più in basso, dalle quattro piccole finestre della cantina; al centro, il bel portale d’ingresso ornato da bugne, che girano tutt’attorno ad arco, è preceduto da una breve scalinata (12 gradini) e massicci parapetti in muratura. Le semplici mensole, che incorniciano il sottotetto, creano un motivo ornamentale che ben si attaglia a quello creato dai cantonali delle facciate. Sul colmo del tetto era posta una struttura a gabbia in ferro battuto per sorreggere una campana che suonava a martello e una bandierina segnavento in ferro.
La facciata a nord presenta una scala d'accesso al piano rialzato, formata da due rampe contrapposte di nove gradini in pietra poste parallelamente alla facciata con ringhiere di ferro ed un frontone in muratura, al cui centro vi è la porta d'ingresso al piano seminterrato. Il portale d'ingresso, che insiste sul pianerottolo delle scale, è uguale e simmetrico a quello della facciata principale salvo l'assenza del bugnato. Anche le finestre della cantina, del piano nobile e dell’ex granaio sono esattamente uguali e corrispondenti a quelle della facciata posta a mezzogiorno.
Il fianco ad est è nascosto da una modesta struttura muraria un tempo abitata dal custode e dai resti dell'accesso carraio della villa con l'area di stazionamento dei cavalli.
Il fianco ovest è invece parzialmente coperto da una costruzione che in passato, per l'evidente tipologia dell'edificio, doveva costituiva l'oratorio di Ognissanti, di cui, già ai primi dell'Ottocento, si era persa traccia, se non nel ricordo toponomastico della strada che corre in fregio a questa costruzione e che veniva chiamata Via dei Santi.
All’interno, una luminosa galleria di ispirazione palladiana (mq. 60 circa), che collega le due entrate della villa ed immette nei locali laterali, realizzati in modo simmetrico, ha un alto soffitto a botte, bilobato, con doppie mensole affiancate che creano numerose nicchie. Era riscaldata da un proprio camino. La sala grande (circa 30 mq), che occupa gran parte dell’ala ovest, è illuminata da sud e, tra le due finestre, vi è un camino con cornice di marmo giallo. Il soffitto a botte con nicchie agli angoli conserva tracce di affreschi tardo-ottocenteschi: rami fioriti legati con trine vaporose e quattro coppie di putti con cornucopie; e in alto, al centro di ogni parete, vi sono dipinti quattro piccoli stemmi appartenenti alle famiglie che hanno posseduto l’edificio nell’Ottocento. Sul lato nord, vi è una piccola cucina. L’ala est costituiva la zona notte: una grande camera da letto, illuminata da nord, con un camino in marmo, e due stanzette più modeste.
Nel seminterrato, diviso in poche stanze da pareti portanti, vi è una cucina luminosa e ben arieggiata, munita di un grande camino, le dispense e la cantina. Questo piano consentiva un soggiorno decoroso ai domestici ed è collegato con il cortile interno da una rampa dolce e breve.
L’ultimo piano, che era adibito a granaio, luminoso e ben areato, si raggiungeva tramite una ripida e stretta scala interna. Il tetto era sostenuto da poderose travi in legno.
La cascina
Gli edifici rurali del "Savoldo" erano posti a mattina e, in parte, a monte della villa padronale.
Sul lato sud, l'ingresso separava un'abitazione di sei locali da un lungo portico ad otto campate che correva in fregio alla strada statale.
Sul lato nord del cortile, vi erano varie abitazioni rurali a due piani e le stalle che avevano originariamente il tipico impianto di stalla bresciana con colonne dai capitelli tuscanici in marmo di Botticino, che scandivano gli stalli. All'esterno, si imponeva lo slancio degli alti pilastri in mattoni, che formavano un vasto porticato a tredici campate a protezione dei fienili sovrastanti e della stessa stalla. Contigua ad esso, un'abitazione a due piani riservata ai "bovari" e una "barchessa" per il ricovero dei carri e degli attrezzi agricoli, con la parte superiore strutturata a fienile.
Sul lato ovest il cortile è chiuso da un muro di cinta, da un’apertura del quale un tempo i contadini dalla campagna circostante potevano entrare per poi accedere alla chiesetta, a cui i padroni di casa accedevano da un apposito ingresso adiacente alla villa.
A nord-ovest, la proprietà è chiusa da una bella e alta "colombera" a due piani di probabile origine seicentesca, che in passato è stata sfruttata anche come abitazione ed è poi rimasta vari anni in completo abbandono.
Accanto alla villa padronale, vennero costruiti alcuni locali per i dipendenti e, nella zona retrostante, una torretta-colombaia,
La proprietà fondiaria
I terreni legati alla proprietà "Savoldo" erano posti, sin dall'inizio, quasi tutti in territorio di Onzato (ora comune di Castelmella), mentre la casa padronale e la cascina da cui essi dipendevano erano situate in territorio di Roncadelle. Ciò ha comportato qualche problema nella gestione dell'azienda agricola, soprattutto negli ultimi due secoli, quando il "Savoldo" ha dovuto far riferimento a due distinte amministrazioni comunali. Ancora nel 1956 la Giunta municipale di Roncadelle, per risolvere la controversia col Comune di Castelmella relativa al diritto di riscuotere l'imposta sul bestiame del "Savoldo", decise di presentare ricorso al Capo dello Stato dopo che la Giunta provinciale di Brescia aveva deliberato che tale imposta dovesse essere "ripartita in proporzione della superficie del terreno di ciascun Comune".
L'estensione complessiva dei terreni del "Savoldo" è variata poco nel tempo, rimanendo compresa tra 150 e 180 piò.
La polizza d'estimo del 1626 elencava terreni per 167,5 piò, oltre al brolo della villa; ma è presumibile che tale dato sia stato stimato per difetto, come avveniva generalmente per le dichiarazioni a carattere fiscale. L'epigrafe in lingua latina, fatta apporre nello stesso periodo da Paolo Savoldi sulla facciata posteriore della villa, parla di 180 iugeri; tale misura, che a rigor di termini equivarrebbe a circa 135 piò, lascia pensare che il Savoldi abbia equiparato per motivi stilistici lo iugero al piò bresciano. Infatti, nella polizza d'estimo del 1637, Paolo Savoldi elencò terreni per 180,5 piò complessivi, oltre al brolo. E la stessa estensione venne ribadita nelle successive polizze del 1684 e del 1721.
Si trattava di dieci appezzamenti, uno solo dei quali (il “Fornasotto” di 15 piò) posto a nord della strada regale, ad ovest del vaso Mandolossa; gli altri nove, in territorio di Onzato.
I campi erano "aradori et vidati"; i prati, circa un terzo dei terreni, erano irrigati; ma nelle polizze si sottolineava la scarsa qualità delle acque di irrigazione e la necessità di provvedere costantemente alle riparazioni lungo l'argine della roggia Mandolossa.
Inizialmente il "Savoldo" venne gestito dai massari Ludovico e fratelli Cochetti. I circa 100 piò di terreni coltivati producevano cereali e uva, mentre i prati fornivano il foraggio invernale ai bovini di un malghese di Bovegno, oltre che ai pochi animali dei Savoldi. Il proprietario vi ricavava per sè almeno 20 some di "grosso" e 20 di "minuto", 6 carra di vino, 20 di fieno e 6 di legna.
Passaggi di proprietà
Il cav. Paolo Savoldi, che risiedeva ordinariamente nel palazzo di Brescia, aveva alle proprie dipendenze tre servitori e quattro donne di servizio, oltre al "carrociero" per condurre la carrozza. Nel 1637 dichiarò di tenere due servitori per suo uso personale essendo "al tutto conquassato dalla gotta".
La piacevole villa di campagna fatta costruire da Paolo appartenne alla famiglia Savoldi per più di due secoli: da Paolo passò al figlio Giuseppe, il quale, non avendo figli, la lasciò ai figli di suo fratello Lorenzo. Questi si divisero poi le proprietà di famiglia: a Lodovico (nato nel 1668 ca.) furono assegnate quelle di Cellatica, mentre Benedetto (nato nel 1669 ca.) tenne i beni di Roncadelle e Onzato, che poi finirono per essere ereditati dai figli di Lodovico: don Lorenzo (n. 1708 ca.), Paolo (n. 1709 ca.), Teseo (n. 1715 ca.), Giuseppe (n. 1717 ca.), Antonio (n. 1718), Carlo, Cinzia (m. 1783), suor Marianna Lucilla e don Benedetto. Tra questi, fu Antonio a beneficiare del lascito, essendo il più longevo dei fratelli, mentre Lorenzo e Benedetto, divenuti padri canonici lateranensi, rinunciarono ad ogni pretesa sull'eredità. Con sua figlia Antonia (n. 1783), rimasta unica erede della famiglia, si estinse il nobile casato. Antonia stessa riuscì a conservarne la proprietà in modo fortunoso, in quanto sembra sia stata concepita poco prima che il padre morisse nel giugno 1782 e non fu facile per la madre farne valere i diritti ereditari. Sposata a Pietro Ceruti, Antonia ritrovò nei suoi terreni una epigrafe (v.) romana dedicata al dio Alo (attualmente conservata presso il Museo Romano di Brescia), che dimostra quanto fosse antica la coltivazione dei terreni nella zona. Nel 1870 la proprietà del Savoldo passò, per complessi diritti ereditari, alle contesse Balucanti, poi nel 1887 alla contessa Carolina Martinengo Cesaresco (di cui è rimasta la sigla in ferro battuto sull’ingresso della villa) e nel 1905 al nob. Ercole Guaineri, proprietario del castello di Roncadelle. Nel 1937 passò in eredità ai figli del Guaineri e nel 1938 venne acquistata dal figlio Luigi (1901-1988), mentre la vedova Orsolina Maggi di Gradella (1872-1958) ne rimase usufruttuaria.
Nel giugno 1929 lo stabile Savoldo con i terreni di pertinenza (circa 50 ettari) venne affittato al sig. Luigi Ferrari con contratto novennale. Ogni appezzamento era circondato da alberi, soprattutto gelsi dolci e ontani. Nel giardino a sud della villa padronale vi erano ancora 32 viti "fruttifere nostrane" e 20 alberi da frutto. Da allora, la villa è stata occupata dalla famiglia Ferrari: dopo Luigi, dal figlio Bortolo detto Lino (1912 -1993) e dai suoi eredi.
La famiglia Ferrari ricorda:
“Negli anni intorno al 1950 vivevano e lavoravano in cascina undici famiglie di dipendenti, grosso modo 55-60 persone. Ogni famiglia aveva in genere due stanze collegate da una scala. Queste abitazioni (v.) non disponevano né di acqua né di bagni. In cascina c’erano due pompe per l’acqua: una per gli usi domestici, l’altra per gli animali e per chi ne voleva fruire. Al posto dei bagni c’erano due zone adattate a queste esigenze. Ogni dipendente riceveva una paga in denaro, ma aveva anche latte, frumento, grano; poteva coltivare un po’ di orto, allevare qualche gallina, possedere qualche coniglio e talvolta anche un maiale. Dal 1952 cominciò l’esodo di qualche lavoratore verso l’industria pur continuando ad abitare in cascina. Contemporaneamente cominciò la meccanizzazione del lavoro agricolo. Chiaramente la vita non era facile: si lavorava di più durante l’estate e meno durante l’inverno. Ma ci si stava avviando a diventare un paese moderno e benestante”.
Nel 1991, l'intera proprietà venne acquistata da Bortolo (Lino) Ferrari. E i suoi eredi hanno poi ceduto nel 2007 il Savoldo all’arch. Lanfranco Cirillo, divenuto famoso come “architetto di Putin”, che ha restaurato la villa e consolidato le altre strutture di pertinenza.