CLIMA
Roncadelle ha un clima sub continentale temperato, con temperatura media annuale di circa 13°C, inverni freddi (gennaio minima media -0,3°C) ed estati calde (luglio massima media 27,8°C), piovosità significativa (media annuale 1.091 mm) ben distribuita durante l’anno con picchi in autunno (novembre 125 mm) e primavera (maggio 106 mm), umidità relativa piuttosto elevata (83% in novembre e dicembre), venti generalmente deboli (9 km/h) con direzione prevalente W-NW. (Dati 1991-2021).
Ai fini dei consumi energetici Roncadelle è classificata in zona climatica E con 2.410 gradi/giorno.
Uno dei protagonisti della storia umana, troppo spesso trascurato in passato, è il clima. È stato lui a determinare le scelte stanziali delle comunità, il tipo di alimentazione, di ripari e di vestiario adottato, la prosperità o la penuria produttiva, le migrazioni; ha favorito espansioni territoriali, suscitato rivolte popolari e sconfitto potenti armate militari…
I fenomeni meteorologici hanno sempre condizionato la vita dell’uomo e le sue attività economiche, soprattutto nelle produzioni agrarie, i cui rendimenti dipendono in gran parte dalle variazioni climatiche, che hanno sempre gravato come una pesante incognita sui raccolti. E i dati climatici evidenziati nel passato riguardavano soprattutto le temperature estreme e i fenomeni persistenti, come la siccità, le piogge prolungate o i lunghi periodi di freddo intenso. I danni alle colture determinavano infatti carestie o penurie alimentari, con inevitabili conseguenze sulla salute e sugli equilibri sociali. Nel ricostruire brevemente la storia del clima locale, nelle diverse epoche, ci si rende conto della precarietà di vita in cui è vissuta per secoli anche la nostra comunità.
Sappiamo che le continue variazioni climatiche dipendono da vari fattori naturali (macchie solari, inclinazione dell’asse terrestre, percentuale di anidride carbonica e di altri gas nell’atmosfera, ecc.) e solo in tempi relativamente recenti abbiamo capito che molti sconvolgimenti climatici del passato sono derivati da eccezionali eruzioni vulcaniche in terre anche molto lontane. Ma stiamo finalmente rendendoci conto anche delle nostre (crescenti) responsabilità.
L’Impero romano raggiunse la sua massima estensione e prosperità durante un periodo climatico ottimale (200 a.C. – 150 d.C.) con temperature miti e piogge estive regolari, che consentivano raccolti cerealicoli stabili e abbondanti. E proprio in quel periodo, attraverso la centuriazione (v.), il territorio di Roncadelle ebbe il suo primo sviluppo economico con conseguente popolamento. Nei tre secoli successivi iniziò un periodo di scompiglio climatico, cui non furono estranei l’abbattimento di vaste aree di foreste per creare terreni agricoli e il consumo di enormi quantità di legname come combustibile. Tale cambiamento comportò una riduzione delle produzioni agricole e un contenimento demografico, anche se nel IV secolo vi furono piogge abbondanti e buoni raccolti nell’Italia settentrionale. In quel periodo, fu la siccità nelle steppe euroasiatiche che determinò gli spostamenti di intere popolazioni verso ovest (Unni, Goti) mettendo in crisi l’Impero romano d’Occidente.
L’improvviso gelo arrivato dal 536, quando il sole aveva perso la sua luminosità, sembra sia stato causato dall’esplosione del vulcano Rabaul (Papua-Nuova Guinea). Da allora iniziò un periodo di freddo e alluvioni, di carestie ed epidemie, che durò almeno un secolo e mezzo (“piccola glaciazione della tarda antichità”). La debilitazione della popolazione favorì probabilmente la diffusione della cosiddetta “peste di Giustiniano” scoppiata nel 541. Fu in questo panorama di devastazione che si combatté la guerra greco-gotica (535-553) e che i Longobardi (v.) occuparono abbastanza facilmente l’Italia. Lo storico Paolo Diacono racconta di tragiche calamità naturali verificatesi nei due secoli di dominio longobardo: devastanti alluvioni (ottobre 589), inverni freddissimi (604-05, 763-64) seguiti da carestie ed epidemie. Il 18 settembre 772 una tempesta di proporzioni eccezionali colpì il territorio bresciano: nella città di Brescia si contarono 500 morti. Questi episodi climatici estremi sono il sintomo più evidente della precarietà in cui si visse nell’Alto medioevo, con raccolti scarsi e grande insicurezza sul futuro: la natura incuteva timore; i lupi si avvicinavano spesso agli abitati e contro di loro fu ingaggiata una lotta feroce.
Anche l’età carolingia trascorse tra alti e bassi, alternando carestie ed incrementi di produzioni agricole. La riserva di cereali, che si usava costituire dopo ogni annata produttiva, non sempre era sufficiente per affrontare la stagione successiva. Il monastero di S. Giulia si impegnò comunque ad utilizzare le proprie riserve per le varie necessità dei periodi difficili e per sostenere gli zenodochi. Inverni gelidi, inondazioni primaverili e autunnali, estati aride o troppo umide causavano spesso carestia e fame. La denutrizione cronica era tra le cause dell’alto tasso di mortalità e favoriva la diffusione delle epidemie. Persino la stazza degli animali diminuì: il peso al macello di maiali e buoi divenne molto inferiore a quello di epoca romana.
Particolarmente crudo fu l’inverno dell’853. Indicativa risulta la testimonianza del cronista carolingio Andrea da Bergamo, che per l’anno 872 rilevava il tracollo di alcuni settori agricoli, in particolare quello della produzione vinicola, dopo una serie di fenomeni atmosferici, compresa una inaspettata caduta di pioggia mista a terra (in corrispondenza della Pasqua) e più tardi una brinata fuori stagione, a cui nel mese di agosto si era aggiunta una tremenda invasione di cavallette, che divorarono non solo le messi, ma persino le cortecce delle piante, devastando i campi del Bresciano, del Cremonese e del Lodigiano. La fine del IX secolo portò anche estati molto calde, come quella dell’897.
Dal 900 al 1200 il clima fu tendenzialmente stabile e tiepido, favorevole alla produzione agricola e ai commerci. E fu proprio allora che il territorio di Roncadelle, gestito dal monastero di S. Giulia, visse la sua rinascita, un secondo periodo di sviluppo economico ed assunse il proprio nome (v.) definitivo, distinguendosi dalla vicina Torbole. Le anomalie termiche riguardarono più gli inverni rigidi (soprattutto tra il 1116 e il 1133) che non le estati caldissime e siccitose, come quelle del 1135 e del 1157. Oltre a ricorrenti terremoti (v.), gli “Annales Brixienses” alludono a periodi di siccità, ad inauditi rigori invernali, a violente piogge e grandinate e persino ad una eccezionale invasione di bruchi tra il 1140 e il 1145. Pesanti erano i danni alle colture procurati periodicamente dagli agenti atmosferici. Inoltre, quando i fiumi gelavano, i mulini non potevano essere azionati e si soffriva la fame. Lo stesso accadeva quando i fiumi e i canali si seccavano.
Il medico quattrocentesco Giacomo Malvezzi tramanda nel suo “Chronicon Brixianum” il ricordo dell’inverno 1234, talmente rigido da far seccare le viti, gli ulivi e gli alberi da frutto, e della tremenda epidemia che, nell’anno seguente, colpì i bovini e si propagò anche agli altri animali da allevamento.
Dalla seconda metà del ‘200 cominciarono a manifestarsi nuovi mutamenti ed una fase climatica tendenzialmente più fredda, poi definita PEG (“piccola era glaciale”), che durò quasi sei secoli alternando fasi acute di freddo intenso ad altre più miti e determinando frequenti scompensi nella produttività agraria. La causa di quell’abbassamento termico è attribuito alla violentissima eruzione del vulcano Samalas in Indonesia (estate 1257), che generò una altissima colonna di ceneri e solfati.
I primi anni del ‘300 sembravano promettere un’epoca climatica migliore con una sequenza di estati fresche e umide: anche se i raccolti erano scarsi, bastavano per sopravvivere. Poi si alternarono intense piogge estive e inverni lunghi e freddi, che causarono una grave e duratura carestia. Le grandinate, le gelate primaverili e alcuni periodi di siccità completarono l’opera delle avversità climatiche: in tale contesto arrivò nel 1347-48 la terribile “peste nera”, che in poco tempo ridusse la popolazione di circa un terzo; e ci vollero due secoli per ricostituirla.
Con il perdurare della crisi del monastero di S. Giulia, i Visconti nel 1386 inserirono il territorio di Roncadelle nelle Chiusure di Brescia (v.) e confermarono l’appalto dei dazi e dei “saletti” del Mella ai Porcellaga (v.), che diedero un nuovo impulso allo sviluppo economico locale.
Sembra che la fase intermedia della PEG, tra il 1380 e il 1560, sia stata più mite, ma anche nel ‘400 si verificarono inverni rigidissimi, come quello del 1407-08, quando la temperatura scese sotto i -30°C con danni ingenti e numerose vittime di assideramento; o quello del 1431-32, che fece gelare i fiumi e la laguna di Venezia. Nel 1440 il gelo invernale costrinse i lupi a scendere a valle. Vi sono anche notizie di anni caldi, come il 1473, che fece fiorire e fruttificare gli alberi precocemente e portò un’estate calda e siccitosa, ma quasi tutti gli inverni furono gelidi. Periodiche pestilenze e carestie colpirono la popolazione locale. L’8 settembre 1477 arrivò un’altra tragedia: nuvole di locuste, portate dal vento di tramontana, calarono sulle campagne bresciane divorando ogni foglia, frutto e filo d’erba. Tutti i raccolti vennero distrutti. Le comunità locali pagavano a peso chi le raccoglieva per evitare che si ammorbasse l’aria.
Dopo una breve parentesi di inverni miti a cavallo tra XV e XVI secolo, arrivò una nuova serie di inverni molto freddi e nevosi dal 1505 al 1523, a cui seguirono invernate miti tra il 1528 e il 1542, con estati calde e siccitose, tanto che i fiumi si inaridivano. Il 29 agosto 1542 il territorio bresciano fu assalito da un’altra massiccia invasione di locuste, che “rosegavano et facevano andar a male tutto quello che trovavano” e quando la sera perdevano le forze con la rugiada, ricoprivano il terreno di uno strato maleodorante. Inverni gelidi furono ancora quelli del 1547-48, del 1564-65, del 1568-69. Molto nevoso fu l’inverno del 1570-71 e una forte grandinata colpì la campagna il 25 aprile 1572, mentre una grave epidemia falcidiava la popolazione. Sembra sia stata l’eruzione di un altro vulcano in Papua Nuova Guinea attorno al 1580 a provocare una sequenza di stagioni vegetative fredde e piovose, che portarono alla carestia degli anni 1590-92.
Per proteggersi dagli eventi climatici, la popolazione attuò cambiamenti nel modo di vestirsi, di abitare, di riscaldarsi. Gli edifici in legno vennero via via rimpiazzati da quelli in pietra e/o mattoni. Le case tendevano ad aumentare il numero delle stanze: la separazione dei letti e delle camere contribuì a ridurre la possibilità di trasmissione di parassiti e di contagi epidemici. Uomini e bestie cominciarono a vivere in ambienti distinti. Le famiglie benestanti disponevano di locali separati per le persone di servizio generalmente alloggiate ai piani superiori, che risentivano del riscaldamento di quelli più bassi. L’introduzione di finestre in vetro, al posto delle semplici imposte (scür) o della carta, favorì una minore dispersione di calore e diede maggiore luminosità alle stanze. Il dilatarsi dei periodi più freddi incideva sui costi e sull’ambiente naturale: il crescente fabbisogno di legname da riscaldamento comportò una visibile riduzione degli alberi; il vestiario divenne più pesante, sia per il giorno che per la notte.
Inoltre, a causa del clima, aumentarono non solo i malesseri fisici, ma anche i disturbi mentali. Le giornate interminabili e cupe, in cui la luce del sole era oscurata da nuvole grigie o da polveri inspiegabili; una stagione estiva troppo piovosa; un inverno troppo lungo; la penuria alimentare prolungata; persino il degrado della vegetazione causato dalle piogge acide, erano fattori che provocavano anomalie dell’umore di tipo depressivo, insonnie, letargie, paure ingiustificate, immunodeficienza, tristezza e, a volte, disperazione. E la religione, se da un lato offriva elementi di speranza e conforto, dall’altro appariva oppressiva e angosciosa, col suo costante riferimento all’espiazione per le colpe commesse.
Per quanto riguarda i fenomeni climatici dei primi anni del ‘600 a Roncadelle, abbiamo il supporto di un testimone diretto, Luigi Guaineri, che abitava a Villa Nuova (v.) e teneva un diario, su cui annotava, oltre al suo bottino di caccia, anche alcuni detti popolari e i dati meteorologici dal 1604 al 1625. Tali annotazioni, al di là di alcune espressioni iperboliche, assumono un interesse particolare riguardando un periodo culminato poi nella terribile pestilenza del 1630.
“Quest’anno 1604 dalli 15 Ottobre fin alli cinque Feb.o 1605 non piovve mai, ma fu sempre un sereno bellissimo.
Quest’anno 1606 dalli sedici di Agosto non piovve mai salvo il giorno de S.ta Justina fin alli sette de Novembri et fu fra questo tempo aridità et siccità grandissima.
Quest’anno 1607 fu aridità et siccità grandissima talmente che dalli 29 Giugno fin alli 28 Settembre non piovve mai, siche una gallina non avesse trovato raspando il sutto et a me diede danno tal arsura più di 300 scudi, non avendo fatto ne milio, ne feno, ne vino.
Quest’anno 1609 dal principio di Maggio fino alli 29 di Ottobre tutti li venerdì sempre venne pioggia et l’estate fu piovosa piena di ventj impetuosi, piogge, tempeste et la Mella dal principio di Maggio fino al giorno sop.to non asiugò mai et tredece volte fece cresciuta teribile et in summa fu estade di nome ma con poch.mo caldo et il giorno sop.to venne freddo grand.mo.
Quest’anno 1611 fu aridità et siccità grand.ma siche li pozzi, fiumi et finili secarono.
Il giorno de S.to Michaele [29 settembre 1618] tempo sceleratissimo, ribaldissimo, diavolissimo, et più la notte chel giorno essendo venuta la Mella tanto grande che venne nel cortivo, siche tutta la casa era piena d’aqua, le brede de sopra di casa e di soto, l’horto, il brolo, tutto il loco del massaro, et tutto il giorno non si fece altro che far gittar l’aqua da trei homeni fora delli loggi di casa essendo alta fin a meza gamba.
L’anno antecedente 1618 fu anno pieno et abondantissimo di infinite pioggie et fu anno stravagantissimo poiche Zenaro Feb.o Marzo non piovve mai, et fu tanta siccità che più di cento pozzi in Brescia et nel territorio seccarno et era grand.ma carestia di aqua. Vennero brine grand.me con grand,me ruine nell’uva. Alli 15 di Aprile dipoi cominciò a piovere, et fin alli vinticinque di Ottobre non fu mai settimana che non piovesse et tal settimana, non solo una intiera, ma due et trei continue, sempre pioggie. […]
Quest’anno passato 1619 fu per me infelicissimo perché alli 19 di Maggio la mezanotte venne una tempesta che mi ruinò bona barte del formento, et la mittà dell’uva; doppo non contenta la mala ventura venne un’altra tempesta il penultimo del mese di Luio et pur di notte, cioè doi hore avanti giorno, che mi scavezò li milij, mi ruinò il fieno et mi finì di disertarme l’uva, talmente che io non feci pur una taza di vino puro, solo un poco di vino con aqua, cativo et ch’a pena si poteva bevere; nel brolo non hebbi altro ch’una gratta di Marzamino et nel horto sopra la pergola doi gratelle di uva bianca. […]
Quest’anno [1621] fu anno stravagantissimo perché tutt’Estate venne sempre la Mella et vennero tempeste tremende che ruinorno più di trenta terre in Francia Curta, et le migliori di vino et poi al principio di Settembre si serenò, ne mai piovve fin alli 20 Ottobre, siche malagevolmente si poteva seminare. Quest’anno furono gatole infinite che ruinorno li frutti ne per il g.no si vidde mai vespa, pochissimi milij, pochissimi feni ravaroli, et fu anno generalmente carestioso, salvo che dove non tempestò fu abondanza di vino et bonissimo et in particulare nella terra de Roncadelli.
L’anno antecedente 1622 fu stravagante perché l’Inverno fu grandissimo freddo, neve assai, siche il formento ma più la segala patirno assai, brogne nepur una, pomi, peri, tutti marcivano sopra li piedi. La primavera fu piena di pioggie et inondationi di fiumi. L’Estate calidissima ma con molte pioggie. L’Autunno secchissimo, milij assai, vendemia abondante et d’ottimi vini, ma quel che più importa infermità infinite, con morte di infiniti et questo male generalissimo per tutt’Italia, siche quasi pizicava alquanto di male contagioso […].
Quest’anno 1624 fu anno stravagantissimo poiché la Primavera, cioè Feb.o Marzo Aprile fin alla fine di Maggio non piovve mai, et per questo il feno fu pochissimo. L’Estate piena di horribilissimi tempi, toni lampi saette tempeste et pioggie impetuosissime […]. L’Autunno poi secchissimo siche malamente si po' arare ne seminare. Iddio ch’il tutto regge ci guardi tutti dal male.
Quest’anno 1625 fu anno aridissimo perché dalli quindici di Maggio sino alli dieci Accosto non piovvi mai”.
Nel 1628 violente grandinate e temporali resero scarsi i raccolti e fecero lievitare i prezzi alimentari. L’aggravamento della carestia provocò tumulti in città, dove nella primavera del 1630 arrivò il contagio della peste. A determinare gli sconvolgimenti climatici del ‘600 e del ‘700, secondo i meteorologi, fu il vulcanismo molto attivo di quel periodo (Perù, Filippine, Papua Nuova Guinea, Giappone, Ecuador e Islanda). Il 1636 fu un anno di grande siccità. Gli scarsi raccolti del 1647 portarono ad una nuova carestia nel 1648 e, a Brescia, nel 1649 scoppiarono nuovi tumulti per la mancanza di pane. La carestia proseguì anche negli anni successivi. Ciò costringeva le autorità venete a ricorrere a continui approvvigionamenti di cereali, che non sempre erano sufficienti. Nel giugno 1672 arrivò una grande tempesta con grandine e bufera. Rigidissimo fu l’inverno del 1676-77.
Le grandi nevicate facevano cadere spesso i tetti delle case e il grande freddo invernale gelava il vino nelle botti, mentre le malattie influenzali mietevano vittime.
Anche nel corso del ‘700 si registrarono vari inverni rigidissimi, a cominciare dal gennaio-febbraio 1709, quando la temperatura scese sotto i -30°C e gelò persino il lago di Garda. Dalla metà del ‘700 vi fu una ripresa degli investimenti in agricoltura con una successione di buoni raccolti, grazie anche ad un più favorevole andamento climatico, anche se particolarmente freddi furono l’inverno 1739-40 (quando si dice che gli uccelli cadessero stecchiti a terra mentre erano in volo), il gennaio 1767, il 1785, il dicembre 1788, il gennaio 1795, ecc. Gli inverni duravano spesso fino a maggio e non mancarono annate di grande siccità (come il 1734 e il 1782), in cui i mulini non avevano acqua per macinare il grano. Gli scadenti raccolti del 1763-64 portarono ad una nuova carestia. Nel 1767 i lupi scesero di nuovo a valle in cerca di cibo e venne stabilito un compenso di 25 ducati per ogni lupo ucciso. Nel 1775, a causa della carestia nelle valli, gruppi di valligiani armati fecero incursioni nei paesi e nelle cascine isolate per rubare grano.
Piogge sterminate e raccolti scarsissimi caratterizzarono il periodo, mentre i prezzi dei cereali continuavano a lievitare ed il mais entrò a far parte stabilmente dell’alimentazione popolare. Anche l’inverno 1808-09 si caratterizzò per il gelo intenso e le forti nevicate. Se il periodo napoleonico fu tormentato da un clima particolarmente freddo, il successivo vide pochi miglioramenti. Il 1816 è tradizionalmente noto come “l’anno senza estate”. La causa è da attribuire alla violenta esplosione del vulcano Tambora in Indonesia (10-11 aprile 1815), considerata la più forte avvenuta negli ultimi 10.000 anni; le polveri immesse allora in atmosfera raggiunsero la stratosfera e fecero da schermo alla radiazione solare per alcuni anni. I primi decenni dell’Ottocento portarono molte annate fredde, con inverni nevosi ed estati piovose. Il Mella (v.) esondò spesso a causa delle intense piogge: memorabile l’alluvione del 14-15 agosto 1850, che suscitò la commozione e la solidarietà di mezza Italia, anche in funzione antiaustriaca. Nel 1876 violenti temporali rovinarono le coltivazioni.
L’Ottocento mise comunque fine alla “piccola era glaciale”, che lasciò il posto ad un tendenziale aumento delle temperature medie nel Novecento, pur presentando ancora saltuari picchi di freddo intenso (febbraio 1929, dicembre 1941, inverno 1946-47). E, durante le due guerre mondiali, i nostri soldati sperimentarono quanto fosse crudele il “generale inverno”, che mieté molte vittime.
Durante tutti gli anni Quaranta le estati risultarono molto calde. La produttività agraria ne risentì positivamente, supportata anche dalle innovazioni agronomiche e tecniche. Dal febbraio al giugno 1956 una nuova ondata di freddo colpì l’Italia portando nevicate quasi dappertutto. Le estati tornarono ad essere mediamente miti (pur con un picco di 37°C nel luglio 1957), come anche alcuni inverni. Le esondazioni del Mella si fecero più rare, ad eccezione di quella del 4 novembre 1966 quando, dopo lunghe giornate di incessanti piogge, il fiume ruppe l’argine a nord di Castelmella ed allagò il paese devastando case, stalle, cortili e uccidendo centinaia di animali.
Gli anni Ottanta furono caratterizzati da estati molto calde (con un picco di 36°C nel luglio 1983) e da un inverno (1984-85) divenuto celebre per una temperatura scesa fino a -19°C e per la storica nevicata del 13-16 gennaio (circa 90 cm di neve), che trasformò il territorio locale in paesaggio lunare con strade impraticabili, tetti pericolanti, aziende agricole bloccate; e il paese divenne una comunità solidale, dove tutti aiutavano a liberare strade e tetti.
Ma già allora ci si rese conto dell’anomalo riscaldamento globale, che stava crescendo soprattutto a causa della concentrazione di CO₂ nell’atmosfera (e di altri gas serra), prodotta sia dal crescente utilizzo di combustibili fossili per l’energia necessaria per i trasporti e per l’industria, sia da altre attività umane, come la deforestazione, l’agricoltura e gli allevamenti intensivi.
Negli ultimi decenni gli episodi di grande gelo sono andati scomparendo lasciando il posto ad inverni mediamente più miti, e a temperature mediamente più alte in ogni stagione. Si osserva anche una diminuzione del numero di giorni di nebbia e di neve, con un aumento della frequenza di eventi estremi, come le ondate di calore. Le precipitazioni mostrano variazioni significative, con periodi di siccità alternati a periodi di piogge intense.
E il discorso da locale deve farsi necessariamente globale, come globale è per sua natura il clima. Per evitare disastrose conseguenze nel prossimo futuro, che mettono a rischio non solo il nostro livello di benessere, ma la nostra stessa sopravvivenza, occorrono decisioni ferme e incisive a livello globale. E diventa sempre più urgente un impegno dei paesi ricchi a sostegno di quelli in via di sviluppo, anche per evitare esodi di intere popolazioni dalle conseguenze imprevedibili.
Inoltre, nel proprio ambito, ogni persona, ogni azienda e ogni comunità può fare la propria parte adottando gli atteggiamenti e le soluzioni di minor impatto ambientale possibile. Alcuni imprenditori si sono già attivati in tal senso, prestando attenzione non solo al Profitto, ma anche alla Persona e al Pianeta. La locale Amministrazione comunale, dopo aver creato adeguate aree verdi e delimitato rigidamente l’espansione urbanistica, ha il merito di aver sostenuto convintamente alcune soluzioni virtuose: raccolta differenziata, isola ecologica, piste ciclabili, impianti fotovoltaici installati sugli edifici pubblici e sostegno alla diffusione dei pannelli solari, collegamento alla città con trasporti pubblici ASM, nuove piantumazioni (bosco urbano, ecc.), educazione ambientale, ecc.
Anche ogni cittadino può rendersi utile in tal senso facendo attenzione ai consumi energetici, evitando gli sprechi, scegliendo prodotti eco sostenibili, modificando (se necessario) il proprio stile di vita e le proprie scelte alimentari per il benessere proprio e altrui.