ALLEVAMENTI

Martedì, 8 Luglio, 2025 - 13:30
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Cultura e Sport
Data pubblicazione: 
Martedì, 8 Luglio, 2025
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Una delle attività più antiche e durature della storia dell’uomo è l’allevamento di animali per vari utilizzi (alimentazione, forza motrice, produzione di pelli, tessuti e fertilizzanti, ecc.). Il territorio di Roncadelle, che sin dall’antichità si prestava al pascolo, si è caratterizzato da sempre dalla presenza di allevamenti di erbivori e suini, che hanno costituito un patrimonio prezioso per la comunità locale.

 

È possibile che già i Galli Cenomani (v.), che si dedicavano all’allevamento di ovini (per la lana), di suini (per la carne) e di cavalli (per la guerra, ma anche per l’aratura dei campi), abbiano utilizzato il territorio di Roncadelle come pascolo. In epoca romana, insieme ai nuovi coloni e ai veterani dell’esercito, con ogni probabilità vi si stabilì qualche allevamento di suini e di ovini, oltre che di bovini da lavoro e di animali di bassa corte. È anche possibile che qualcuno vi abbia allevato api per la produzione di miele, unico dolcificante allora utilizzato.

Durante il dominio longobardo l’allevamento del bestiame avveniva lasciando gli armenti liberi al pascolo sulle estensioni prative e boschive, di cui il territorio di Roncadelle abbondava. Inoltre i Longobardi (v.) riportarono in auge l’allevamento di maiali, il cui habitat ideale era il bosco, soprattutto per la sua naturale capacità di fornire ghiande e frutta (silva glandifera o fructuosa). Un documento del 760 testimonia che a Runco Novo presso il Mella (generalmente identificato in Roncadelle) vi erano due porcari, un pecoraio e un vaccaro. Di quegli antichi allevatori sono riportati anche i nomi: Gisolo e Radolo di Contegnaga (Flero), che dovevano pascolare i maiali del monastero; Deodatolo da Lodrino, addetto alle pecore, e Ansteo da Quinzano, addetto alle mucche.

Il “Polittico” di S. Giulia (inventario redatto intorno al 900) rilevò che nella parte dominicale della curtis di Torbole-Roncadelle vi erano 4 buoi, 3 suini, 13 ovini e 15 animali da cortile (galline, polli e oche), ma vi manca l’inventariazione della parte massaricia. Il maiale era indubbiamente protagonista nell’allevamento locale: tale preferenza era giustificata dalla facilità di nutrirlo (anche in presenza di boschi idonei), dalla ricchezza della sua carne e del suo grasso, nonché dalla sua rapidità nel riprodursi. Inoltre, già nell’antichità si diceva che del porco non si scarta niente; e Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) sosteneva che la carne di maiale possiede cinquanta sapori diversi, mentre quella degli altri animali ne ha uno soltanto.

Sappiamo che nell’Alto Medioevo i bovini erano pochi, utilizzati soprattutto per fornire forza lavoro; gli equini (la cui carne era considerata non commestibile) venivano allevati per la guerra ed i trasporti; mentre ovini e caprini erano funzionali alla produzione di latte, formaggio, lana; e dalla loro pelle si ricavavano pergamene. Gli allevamenti erano comunque concentrati in montagna e le difficoltà di collegamento rendevano improbabile la pratica regolare della transumanza delle mandrie tra gli alpeggi e la pianura. Solo all’inizio del sec. XI risulta attestato un trasferimento di bestiame (in relazione al monastero di S. Faustino) con spostamenti di greggi dalle montagne a nord di Brescia fino a Torbole. Un notevole incremento alla pastorizia venne dato, a partire dal XII secolo, dall’Ordine degli Umiliati di Brescia, che alla lavorazione della lana dedicarono gran parte della loro attività.

Il rilancio economico dei secoli XIII-XIV sul territorio locale, grazie anche alla protezione di Brescia e ai nuovi investimenti di capitali privati, svilupparono insieme all’agricoltura (v.) anche la zootecnia per fornire cibo alla città. E arrivarono anche epidemie di bestiame: particolarmente micidiale quella del 1225.  Gli Statuti di Brescia avevano proibito l’allevamento di maiali in città (ad eccezione di quattro capi per quadra, destinati ai poveri), mentre lo consentivano nelle Chiusure (v.) da novembre a marzo. I Porcellaga (v.) identificarono nel territorio ad ovest di Brescia l’ambiente adatto all’allevamento delle loro mandrie di maiali e svilupparono una fiorente attività nei boschi presso il Mella, grazie alla quale si arricchirono e divennero poi i signori di Roncadelle.

Nei secoli XV-XVI in campagna continuavano ad essere allevati cavalli e buoi da lavoro, oltre a suini e animali da cortile per consumo familiare, mentre le vacche erano per lo più transumanti. Una delle antiche strade della transumanza scendeva dalla Val Trompia lungo il Mella per trovare una sosta nei cascinali della Mandolossa o di Antezzate (v.), prima di raggiungere altre località della pianura occidentale bresciana. I malghesi pagavano il fieno e il fitto dei locali con i prodotti dei loro allevamenti e con il letame. Ogni vacca produceva allora in media 12 quintali di latte all’anno. I vitelli da macello venivano allevati soprattutto negli anni in cui il fieno costava poco e il prezzo della carne aumentava. In quel periodo, funestato da guerre e frequenti pestilenze, molti valligiani (soprattutto bergamaschi), in gran parte mandriani, si trasferirono stabilmente in pianura colmando i periodici vuoti demografici e affrontando le crisi di produzione con il loro lavoro e le loro competenze nel settore zootecnico. L’incolto e il bosco vennero sempre più utilizzati per gli allevamenti e, accanto all’allevamento suino, si andò così imponendo anche quello bovino, soprattutto delle vacche da latte, utilizzando l’abbondanza di prati stabili; alle vacche liguri si andarono sostituendo quelle delle vallate alpine e i mandriani venivano chiamati bergamì. L’allevamento delle mucche subentrò a quello delle pecore, anche se i pastori della Valcamonica continuarono a scendere in pianura con le loro greggi dall’inizio di ottobre fino alla metà di maggio. Si andò riducendo anche l’allevamento dei cavalli quando l’uso della polvere da sparo restrinse l’utilizzo della cavalleria nell’esercito; ma i cavalli, come anche i muli e gli asini, continuarono ad essere utilizzati soprattutto per i trasporti.

I malghesi presenti a Roncadelle nella seconda metà del ‘500, come Sandrino di Gandellino, Lorenzo Cotti, Bettino da Vissone, Bartolomeo Profeti da Bovegno, Giacomo da Caino, provenivano dalle valli bresciane e bergamasche. E una parte di loro decisero di rinunciare alla faticosa esperienza della transumanza e al legame con le loro vallate per stabilirsi definitivamente nelle cascine di pianura, approfittando di occasioni favorevoli o per necessità. La loro presenza nelle nostre campagne ha avuto un ruolo importante, non solo per la concimazione dei terreni e la produzione casearia. Portatori di una cultura patriarcale e piuttosto rozza, i malghesi godevano di una grande considerazione nel mondo rurale per molti motivi: innanzitutto il consistente capitale posseduto in capi di bestiame (facilmente monetizzabile), che consentiva loro di concedere prestiti anche ai fittavoli; l’abilità nella trasformazione del latte; la competenza nella cura e nella selezione del bestiame; la grande capacità di contrattazione; la fedeltà alla parola data e la rigorosa puntualità nei pagamenti; la proverbiale sobrietà e propensione al risparmio; lo spirito d’indipendenza e di orgoglio identitario.

Alla fine del ‘500 ricevette un grande impulso la bachicoltura (v.), che era stata introdotta in territorio bresciano nel ‘400 e venne sostenuta a lungo dalle autorità venete. Ovini e caprini venivano visti invece come dannosi per l’agricoltura e le ducali venete nel ‘600 ne proibirono l’allevamento, salvo per i “pubblici tezzoni per i salnitri”, ossia per la produzione di polvere da sparo. La cascina Tezza (da tecia = tettoia) a Roncadelle nacque probabilmente come semplice ricovero di pecore, il cui sterco poteva essere utilizzato per la produzione di salnitro, e costituì un possibile riferimento per i pastori transumanti “che nel verno inondavano il piano”.

La micidiale peste del 1629-30 causò un nuovo abbandono al pascolo delle terre meno fertili e la diffusione di prati stabili, che vennero utilizzati per l’allevamento brado di bovini e ovini. Ma, quando i terreni destinati alle colture foraggere vennero limitati per aumentare la produzione di grano, venne sacrificato l’allevamento bovino con conseguente carenza di carne. I magistrati veneti chiesero allora insistentemente di aumentare la produzione di foraggio per incrementare la “specie bovina tanto necessaria agli usi della campagna e alli bisogni giornalieri della vita” per la produzione di latticini e carne. E le attività del contadino e del malghese cominciarono a fondersi con la costruzione di grandi stalle per i bovini. La stalla significava, oltre che produzione di carne e latte, anche stallatico per la concimazione dei terreni meno fertili. E significava anche luogo di ritrovo per gli abitanti della cascina nelle lunghe serate invernali, dove ci si scaldava, si rammendavano indumenti e strumenti, tra racconti, preghiere, battute, risate e occhiate d’intesa. La convivenza con gli animali, a cui si davano nomi propri, creava spesso un legame affettivo tra l’animale e chi se ne prendeva cura.

Tra ‘600 e ‘700 alcune cascine di Roncadelle, come Antezzate, S. Giulia e Villa Nuova (v.), vennero ingrandite per far posto a nuove, più ampie stalle, oltre che alle abitazioni di nuovi lavoranti. Mentre la passione per i cavalli indusse i Martinengo Colleoni (v.) a realizzare davanti all’ingresso del castello una cavallerizza e una scuderia alla fine del ‘600.

Nel corso del ‘700 gli allevamenti di bovini, di ovini e di cavalli si andarono incrementando e, verso la fine del secolo, si avvertì un risveglio zootecnico con l’attività delle accademie agrarie, il diffondersi di prati stabili, l’imporsi dell’arte veterinaria. Alla grave depressione economica dei primi decenni dell’Ottocento si aggiunse un alternarsi di sfavorevoli vicende stagionali e la diffusione di epidemie del bestiame, specialmente bovino. Dalla metà dell’Ottocento si andò riducendo la pratica della transumanza a favore della stabulazione fissa nelle cascine, soprattutto dei bovini da latte di razza bruno-alpina, mentre i buoi erano ancora l’unica forza motrice per il lavoro agricolo.  

La riduzione della superficie a cereali, che si verificò negli ultimi decenni del sec. XIX a causa del calo del prezzo del frumento dovuto alla concorrenza estera, andò a vantaggio delle foraggere ed aumentò ulteriormente la stabulazione. Inoltre, dal 1873 la stazione dei tori da monta promosse il miglioramento e l’aumento della razza bovina, mentre nel 1896 venne fondata l’Associazione Zootecnica Provinciale con lo scopo di tutelare e migliorare con ogni mezzo possibile l’allevamento del bestiame, finalità a cui contribuirono anche i Consorzi Agrari e la Cattedra Ambulante di Agricoltura. Verso la fine dell’800 anche la carne equina entrò a far parte dell’alimentazione umana.

Tra le voci di entrata dei bilanci comunali fu introdotta la tassa sul bestiame, che obbligava i Comuni ad effettuare periodici censimenti degli allevamenti locali, da cui erano esclusi gli allevamenti avicoli e cunicoli essendo destinati a consumo familiare. Nel 1872 risultavano a Roncadelle 59 possessori di animali, che fornivano un gettito di 362,50 lire annue, diventate 655,41 nel 1906 (quasi un decimo delle entrate). Anche i proprietari di cani dovevano versare una tassa annua (piuttosto controversa) di 2 lire. A tutela del patrimonio zootecnico, vennero istituite nel 1870 dal Consiglio provinciale le condotte veterinarie con durata triennale. Il prezioso servizio dei veterinari si manifestò soprattutto nella lotta contro le epidemie bovine (afta epizootica, brucellosi, tubercolosi) e la peste suina, che trovarono rimedi sempre più efficaci nei sieri e nelle vaccinazioni. Il Comune di Roncadelle nel 1906 rinunciò a far parte del consorzio veterinario di Travagliato per costituirne uno con i Comuni di Castelmella e Torbole Casaglia.

Nei primi decenni del ‘900 la crescente richiesta di prodotti alimentari (in particolare di carne, latte e formaggi) fece sviluppare l’allevamento bovino e aumentarono in modo particolare le vacche, sia di razza bruno-alpina che pezzata nera (frisona italiana o olandese); nel 1924 ogni mucca produceva in media 20 quintali di latte all’anno. Per la riproduzione, oltre a ricorrere alle stazioni di monta, acquistarono tori gli allevamenti in grado di sostenerne le spese d’acquisto e di mantenimento.

Nel 1930 vennero censiti dal Comune di Roncadelle 473 bovini, 153 equini e 104 suini. Vi erano 5 tori da monta, uno per ognuna delle maggiori aziende agricole locali, poi aumentati a 11 nel 1935. La preferenza per l’allevamento bovino era dovuta sia al valore dei capi di bestiame, sia al reddito prodotto, sempre superiore ad ogni altro allevamento; ma risentiva del basso rendimento unitario in latte, della scarsità di stalle e di fieno (in gran parte esportato), dell’arretratezza delle tecniche di allevamento, nonché delle precarie condizioni igieniche in cui venivano tenuti gli animali.

Nel 1921 nacque la Stazione Sperimentale di Brescia (divenuta poi Istituto Zooprofilattico Sperimentale) per combattere le malattie infettive del bestiame come l’afta epizootica, la brucellosi, il carbonchio, la peste suina, ecc. Nel 1929 venne creata la Centrale del Latte di Brescia, che raccoglieva latte dai vari produttori e che dal 1931 cominciò a distribuirlo pastorizzato in bottiglia.

Mentre la transumanza andava riducendosi, alcune famiglie di tradizione malghese decidevano di stabilirsi a Roncadelle. Tra questi ci furono i Toninelli, che si stabilirono alla Mandolossa, e Francesco Tomasoni, originario di Castione della Presolana, che nei primi anni Trenta svernava con il fratello Antonio ad Antezzate e che poi decise di prendere in affitto la cascina di S. Giulina (v.) con i relativi terreni (allora di proprietà del nob. Luigi Guaineri) reinventandosi “contadino-fittavolo” pur mantenendo la propria mandria; alcuni anni dopo, suo figlio Guerino acquistò la proprietà.

Nel 1941 nelle aziende agricole locali risultavano 889 bovini, 95 bufali, 107 equini e 332 suini (di cui 227 per consumo familiare). A gestirli vi erano 22 mandriani, 8 manzolai e 49 bifolchi. I maggiori possessori di bovini erano nelle seguenti cascine:

Antezzate (Cesare Mondini) 216 capi; S. Giulia (Giuseppe Crescenti, F.lli Falappi, Luigi e Giuseppe Camplani) 151 capi; S. Giulina (F.lli Tomasoni) 85 capi; C.na Consoli (Alessandro Consoli) 78 capi; C.na Tezza (Giovanni Rossi, Luigi Fieni) 55 capi; C.na Castello (Scipione Guaineri) 52 capi; C.na Turlini (Aldo Turlini) 51 capi; C.na Fedrisa (F.lli Falappi) 37 capi; C.na Violino (Francesco Vecchi) 27 capi; C.na Foini (Giovanni Foini) 15 capi.

Gli equini (cavalli, asini e muli) erano utilizzati per i trasporti o, a volte, per diletto. Particolarmente curata era la scuderia di Scipione Guaineri (v.), appassionato di cavalli come l’amico Sandro Bettoni, campione di ippica e comandante del glorioso reggimento Savoia Cavalleria, al quale è stata intitolata la Cavallerizza di Brescia.

Nel dopoguerra l’allevamento bovino era ancora prevalente e praticato in aziende agricole di ogni dimensione, mentre quello suino era ridotto quasi esclusivamente a consumo familiare. E il procedere della meccanizzazione comportò il progressivo abbandono della forza motrice animale in agricoltura. Negli anni Cinquanta andò aumentando la consistenza dei bovini e della produzione di latte, stimolata dall’apertura di numerosi caseifici. L’impiego di nuove e più razionali tecniche di allevamento e di fecondazione artificiale contribuì a rendere il settore sempre più produttivo.

Anche i suini tornarono ad aumentare grazie alla possibilità di alimentarli con gli scarti di lavorazione dei caseifici; mentre gli equini erano in diminuzione in seguito allo sviluppo della motorizzazione.

Nel 1959 il Comune dichiarò la presenza a Roncadelle di 1029 bovini, 60 equini, 50 ovini e 222 suini.

Nel 1970 i bovini erano aumentati ulteriormente: 1360, di cui 526 vacche, ognuna delle quali produceva in media 27 quintali di latte all’anno. La meccanizzazione si andò affermando anche nelle stalle, con particolare riguardo alla mungitura meccanica, che ridusse notevolmente la richiesta di “bergamini”. Gli allevatori hanno espresso periodicamente vivaci contestazioni per le condizioni capestro imposte dalle industrie alimentari, per la massiccia importazione di carni e di latte in polvere, per alcune scelte comunitarie, per le continue riduzioni dei loro margini di guadagno, non sempre compensate da adeguati interventi di sostegno.

Negli anni Sessanta si ebbe un consistente sviluppo degli allevamenti avicoli in batterie ad alta concentrazione, favoriti dai contratti di soccida con le nuove società avicole in grado di fornire una crescente quantità di carne e di uova; mentre la pastorizia viveva il suo lento, ma inesorabile tramonto. E cominciò a diminuire il numero delle aziende agricole locali: le 66 del 1961 diminuirono a 58 nel 1982, di cui 26 con allevamenti di bovini e 9 con allevamenti di suini. E nel 1990 ve n’erano 21 con 1730 bovini, 4 con 115 suini, e 3 con allevamenti avicoli (50.050 capi). Anche il numero degli addetti all’agricoltura è andato calando.

L’allevamento del cavallo, riducendo il suo utilizzo economico, è diventato espressione di un’attività prevalentemente sportiva per un mondo amatoriale molto appassionato. Nel 1980 Emilio Balzarini, ricco armatore e importatore di bestiame, ha avviato ad Antezzate una prestigiosa scuderia di purosangue per trotto e galoppo, assumendo per la cura dei cavalli anche lavoratori di provenienza extracomunitaria e destinando a prato e a strutture ippiche i 50 ettari di terreno adiacenti.

Le profonde trasformazioni degli ultimi decenni, dovute a fattori di natura socio-economica, alle molteplici innovazioni adottate e alle politiche comunitarie (PAC), hanno favorito la produzione nel comparto zootecnico e ridotto le superfici coltivate. I capi bovini sono aumentati, ma le vacche sono diminuite in seguito agli interventi comunitari, che hanno istituito premi per l’abbattimento di bestiame da latte e la cessazione di allevamenti marginali. I continui progressi in campo genetico e le nuove tecniche di allevamento hanno fatto aumentare il quantitativo di latte prodotto (nel 2006 una mucca arrivava a produrne in media 67 quintali all’anno), anche dopo l’imposizione di vincoli normativi (quote latte) negli anni Ottanta, che hanno provocato contestazioni da parte degli allevatori.

L’eccezionale nevicata del gennaio 1985 accompagnata da un gelo siberiano, i danni del maltempo del 1991, l’allarme sulla salute causato dalla BSE (“morbo della mucca pazza”) nel 2001, l’influenza aviaria del 2005-06, i sempre più frequenti eventi climatici estremi, non sono che alcuni dei fattori che hanno messo in crisi il settore negli ultimi tempi costringendolo a reinventarsi sulla base della qualità e della professionalità.

Inoltre, le nuove sensibilità, che mettono in discussione alcune tecniche di allevamento e che reclamano un ripensamento di mentalità e soluzioni alternative, rappresentano le nuove sfide. Ma l’interesse manifestato da tanti giovani per l’agroalimentare, nonché la crescente attenzione alla sostenibilità ambientale, sembrano promettere qualche buon risultato per il futuro.