VITICOLTURA

La stagione autunnale (affresco del primo ‘700 in palazzo Guaineri)
La coltivazione della vite è praticata da tempi molto remoti, sia per il suo succoso frutto, sia (soprattutto) perché dall’uva si può ricavare il vino, la cui produzione ha sempre avuto una grande importanza nell’alimentazione e nella socialità dell’uomo, oltre che nella liturgia cristiana.
I primi coltivatori della vite sul territorio di Roncadelle furono con molta probabilità i coloni che, nel I secolo d.C., ebbero in assegnazione i poderi della centuriazione (v.) effettuata dai Romani, anche se i Cenomani (v.) ne avevano già diffuso la coltivazione sul territorio bresciano con la tecnica della “piantata” di alberi vitati (“arbustum gallicum”) appresa dagli Etruschi. Anche i Romani usavano maritare la vite ai filari di alberi che delimitavano i campi coltivati. Il vino prodotto veniva poi conservato in botti di legno, in otri e in anfore; e consumato nell’ambito della “villa” o comunque della piccola comunità locale. Insieme alla coltivazione dei cereali, la viticoltura aveva già un ruolo importante in terra bresciana.
Quando la crisi dell’impero romano comportò una drastica riduzione delle attività vinicole, fu la Chiesa (attraverso i vescovi e i monaci) a rilanciarne la diffusione, sia per esigenze liturgiche, sia perché “il vino rallegra il cuore dell’uomo” come lasciò scritto il vescovo Gaudenzio intorno al 400. E il tempo della vendemmia, come ricordava il vescovo milanese Ambrogio nello stesso periodo, era il tempo più atteso dal vignaiolo che si era prodigato per la sua vigna seguendo con attenzione la lenta maturazione delle uve scaldate dai raggi del sole. Del resto, anche i Vangeli facevano frequenti riferimenti alla vite; e il vino consacrato, insieme all’ostia, divenne il luogo della presenza del divino. La Chiesa dovette comunque faticare a lungo per estirpare le feste pagane del vino dedicate a Dioniso. Nell’Alto Medioevo si fece corrispondere l’inizio della vendemmia con la festa della natività della Vergine (8 settembre), che prese anche il nome di “santa Maria de vendimia”. Come santo protettore dei viticoltori venne poi scelto S. Martino, la cui festa ricorreva quando il mosto veniva trasformato in vino.
I Longobardi (v.), che preferivano bere la cervogia o cervisia (una sorta di birra dolce), dopo la conversione al cattolicesimo dedicarono più attenzione alla viticoltura, importando anche nuovi vitigni dall’Europa orientale, come l’uva “schiava”, che costituì a lungo il cardine della produzione locale, insieme alla “nostrana”. L’editto di Rotari (643 d.C.) stabilì multe pesanti per chi avesse danneggiato i vigneti o avesse rubato più di tre grappoli d’uva dalla vigna altrui.
Secondo il Guerrini, il territorio di Roncadelle divenne ai tempi di re Astolfo (750 circa) una curtis regia, ossia un possedimento della corona longobarda, in parte coltivato a prati e a vigne, in parte lasciato boschivo per le cacce reali e per le forniture di legname al palazzo ducale di Brescia. Nel 760 gran parte dell’area venne ceduta da re Desiderio alla figlia Anselperga, badessa del nuovo monastero di S. Salvatore (poi chiamato di S. Giulia).
La viticoltura era tenuta in grande considerazione nei vari possedimenti del monastero di S. Giulia, compresa la curtis (v.) di Roncadelle. E sembra che molti vigneti attuali, soprattutto in collina, discendano direttamente da quelli piantati dai monasteri bresciani nel IX e X secolo. Dall’inventario “polittico” di S. Giulia, stilato intorno al 900, risulta che nella curtis di Torbole-Roncadelle vi erano viti che producevano almeno 5 anfore di vino (circa 130 litri), probabilmente destinati all’autoconsumo, ma non viene riportata la produzione della parte “massaricia”, che era forse più consistente, metà della quale spettava al monastero. Una parte del vino prodotto doveva essere utilizzato dall’Hospitium (v.) locale, gestito da S. Giulia con finalità caritativo-assistenziali.
Una quantità certamente maggiore di vino veniva prodotto nelle curtes di Franciacorta: “Griliano”, Timoline, Canelle, Erbusco, Borgonato, Iseo, Castegnato e Cellatica. Ma la viticoltura si andò diffondendo un po’ dappertutto, favorita anche da un generale miglioramento del clima (v.), per la produzione di vini destinati a rallegrare i banchetti signorili (dove veniva richiesto il bianco) e le mense popolari, dove era preferito il vino rosso.
Fu in quel periodo che si diffuse la vite anche sugli isolotti del Mella (v.), chiamati Vithexeti, che ebbero una certa importanza per la produzione del vino necessario alla città, tanto che nel Liber Potheris del periodo comunale vengono citati più volte come aree da proteggere, anche dai ricorrenti tentativi di usurpazione. Il Comune di Brescia si era infatti preoccupato di regolamentare le acque del Mella e di arginare e piantumare le sue sponde, in modo da tutelare le terre coltivate a ridosso del fiume dal dilavamento e dalle piene periodiche e improvvise. La crescita demografica e la ripresa delle attività mercantili fecero lievitare la domanda di vino, spesso preferito alla scarsa qualità delle acque, e resero convenienti gli investimenti per promuovere l’avvio di nuovi vigneti. Molti terreni vennero resi “vitati” e la zona del Mella, nonostante il corso del fiume fosse soggetto a frequenti variazioni, venne destinata in gran parte a vigneto, come buona parte delle Chiusure (v.).
Anche il territorio di Roncadelle fece la sua parte. Nei patti agrari del XII e XIII secolo la dicitura “ad plantandum vineam” era frequente, soprattutto nell’assegnazione delle nuove terre da mettere a coltura, anche se non sempre adatte alla vite. Oltre all’obbligo di piantare viti, si indicavano nel contratto anche i diversi interventi da svolgere per “bene colere” la vigna. La viticoltura ha sempre richiesto infatti molta cura e diversi interventi durante l’anno agricolo, sia per mantenere il suolo fertile, irrigato e privo di erbacce, sia per le necessarie potature e le periodiche pulizie per prevenire eventuali malattie della vite.
Nel Basso medioevo si praticava ancora la piantata, ossia l’antica usanza di legare i filari di viti ad alberi tutori posti lungo i fossati o in un bosco creato artificialmente nel podere. Gli alberi di sostegno alle viti (albere, olmi, salici) venivano potati ogni tre anni; qualora si fossero seccati, la legna spettava al proprietario del fondo e il conduttore doveva rimpiazzarli. E bisognava sperare che la tempesta o le guerre (v.) non distruggessero le vigne, anche se dal XIII secolo nei contratti agrari (v.) era prevista una riduzione o una sospensione del canone in caso di danni irreversibili alle colture.
Andarono così aumentando notevolmente le “terre vineate”. Ai proprietari e ai contadini interessava, più che la qualità dei vini, la quantità dei raccolti, da cui dipendevano le maggiori forniture di fermentati da destinare al consumo diretto e possibilmente anche alla vendita. Il vino divenne una bevanda diffusa in ogni ceto sociale, anche se la differenza di status rimase nella qualità e varietà del bevuto. Del resto, secondo l’agronomo bolognese Pier de’ Crescenzi (1233-1320) che fu anche giudice a Brescia, il fermentato d’uva non solo dava buon nutrimento ed era salutare per il corpo, ma era consigliato per tutte le età, facilitava la digestione e costituiva un rimedio contro ogni malanno psico-fisico, compresa la depressione.
Il vino divenne anche un mezzo di socializzazione. Si andarono diffondendo locande e taverne e vennero fissate regole precise, non solo per la coltivazione della vite e la vendemmia, ma anche per la distribuzione e la vendita del vino, soprattutto per evitare contenziosi e problemi di ordine pubblico.
Alle uve “schiave” e nostrane si andarono affiancando la luglienga, il groppello, la vernaccia (che si diceva derivata dal celebre Falerno), il trebbiano, il marzemino. I più pregiati erano la vernaccia, prodotta soprattutto a Cellatica, e il groppello, le cui uve bianche davano un vino robusto e gentile. Per gli usi liturgici si preferiva un vino ricavato dall’uva schiava e prodotto in collina.
A Roncadelle era diffuso il vinum nostranum ricavato probabilmente da diverse specie di uve bianche e rosse opportunamente abbinate, in modo da consentire una discreta resa quantitativa annuale anche in presenza di variazioni produttive delle diverse qualità; si trattava comunque di un vino ben riconoscibile e di buona qualità, documentato nel secolo XII e nei secoli seguenti. Il nostrano era meno pregiato rispetto alla schiava o alla vernaccia e il suo prezzo di mercato, tra la fine del ‘200 e l’inizio del ‘300, variava dagli 8 ai 12 soldi per una quarta (100 litri), ma poteva avere sbalzi notevoli a causa di eventi climatici, bellici o sociali. La produzione locale non doveva essere comunque tanto scarsa, se nel 1306 la vicinia (v.) di Roncadelle si impegnò a consegnare al sacerdote, che si fosse occupato in modo permanente della cura d’anime nella chiesa locale di S. Giulia, ben 2 plaustra (ossia 12 hl) di vino all’anno, oltre a frumento e legumi, per il suo sostentamento. Gli atti di compravendita locali del ‘300 testimoniano la presenza a Roncadelle di diversi terreni “arativi et vithati”, oltre che prathivi o buschivi.
Il controllo fiscale del Comune di Brescia sull’intero processo produttivo e commerciale del vino era piuttosto rigido, poiché il dazio rappresentava una delle principali entrate per l’amministrazione municipale.
Ma il ciclo espansivo della viticoltura si ridusse drasticamente intorno alla metà del ‘300, quando la “peste nera” ridusse fortemente la domanda e la manodopera necessaria e, con l’aumento dei costi dei salariati agricoli, anche la coltura della vite divenne poco redditizia.
In quel periodo i Porcellaga (v.) conseguirono l’appalto dei dazi e dei “saletti” del Mella a Roncadelle, dove avevano acquistato diversi terreni, diventando così i signori del territorio locale. Come punto di riferimento realizzarono l’Hosteria (v.) sull’importante strada di Orzinuovi, in sostituzione dell’antico hospitium di S. Giulia. L’osteria, documentata (come il castello locale) dall’inizio del ‘400, era attrezzata per fornire alloggio e ristoro a persone e animali in transito e divenne punto di ritrovo per gli abitanti del paese. L’osteria veniva usualmente utilizzata per la riscossione dei dazi sulle merci che transitavano da Roncadelle, impiegando anche uomini armati. Era dotata di “pistrino” (forneria) e di “becharia” (macelleria) potendo vendere, oltre al vino, anche pane e carne senza pagare dazi e godendo del diritto di esclusiva su tutto il territorio locale. I Porcellaga cercarono anche di neutralizzare la concorrenza delle altre osterie poste nelle vicinanze, come quella di Onzato e della Mandolossa, per aumentare i propri redditi.
Per la conservazione del vino, l’osteria era dotata di caneva a livello del suolo, con pavimento in terra battuta o in coccio, pareti in muratura e soffitto a volta, costruita in modo tale da risultare oscura, fredda e asciutta, come era consigliato; mentre la cascina presso il castello e quella di Antezzate erano dotate anche di “torcolo” (torchio) per pigiare l’uva raccolta, nonché di “tinazzi”, recipienti per la fermentazione del mosto e per travasare il vino.
Nelle “possessioni” di Roncadelle, oltre ai cereali, si coltivava infatti la vite. Galeazzo Porcellaga nel 1517 dichiarò di trarre dalla sua possessione di Roncadelle (circa 260 piò) 26 carra di vino (156 hl). Nel 1573 Ercole Guaineri (v.) ricavava dai suoi terreni a Villa Nuova (circa 102 piò) 12 carra di vino (72 hl). E nel 1626 i figli di Gerolamo Porcellaga dichiararono di ricavare dai terreni di Villa Nuova (v.) e lungo il Mella (circa 135 piò) 10 carra di vino (60 hl) ogni anno. Trattandosi di dichiarazioni fiscali, i dati vanno presi con molta cautela. Sappiamo comunque che, in quel periodo, la produzione era in media di due ettolitri al piò nei terreni a coltura promiscua.
La Repubblica veneta proteggeva in ogni modo le produzioni di vino e non permetteva di “mesedar vin vecchio e novo per vendere”, prevedendo pene severe per chi avesse manipolato vini “sia coll’annacquarli sia coll’adulterarli in qualsiasi maniera”. La raccolta dell’uva non poteva avere luogo se non nei giorni fissati dai giudici. Per l’occasione, venivano sospesi i procedimenti giudiziari e si coinvolgeva gran parte della popolazione rurale.
La vendemmia costituiva infatti una sorta di rito annuale. Iniziava con i lavori preparatori: pulitura delle botti e dei mastelli, tenuti a bagno affinché le doghe non lasciassero filtrare il liquido. Poi si predisponevano i carri, le gerle e i secchi per il trasporto dell’uva dai filari alle botti, compito affidato a robusti giovanotti (zerlòcc). La vendemmia vera e propria era una festa di famiglia, in cui si coinvolgevano parenti e amici; si mangiava nel campo; in genere gli uomini si dedicavano alla raccolta dell’uva e le donne pulivano i grappoli. Spesso si riempivano due mastelli di legno (sòi): quello “del prét” o “del siòr” con l’uva migliore, e quello del contadino con l’altra. Durante la vendemmia i padroni venivano di persona a sorvegliare i contadini, anche per evitare che mangiassero uva di sotterfugio. Al termine della vendemmia, gli uomini passavano una robusta stanga tra le “orècie dèi sòi” e caricavano i mastelli sui carri. Fatta la ripartizione tra padrone e affittuario, l’uva veniva vinificata schiacciandola con i piedi e poi versata nelle botti per la fermentazione. I maggiori proprietari avevano anche un torchio, che consentiva una seconda spremitura.
Dopo la grave crisi che colpì la viticoltura intorno al 1567, la viticoltura tornò a prosperare in collina nel ‘600 e ‘700, mentre si andò riducendo nella Bassa bresciana con l’avanzata del gelso e l’incremento della cerealicoltura; ma nell’alta pianura rimasero molti terreni “vitati”, anche se l’ombra dei vitigni ostacolava la crescita di altre colture. A Roncadelle alla metà del ‘600 circa un terzo dei terreni coltivati erano definiti “aradori et vidati”, soprattutto nella zona ad ovest del Mandolossa (Antezzate, Fedrisa, S. Giulia) con almeno 375 piò parzialmente coltivati a vite, ma anche a Villa Nuova (143 piò) e nei pressi del Mella (15 piò).
Nei primi anni del ‘700 la permanenza di eserciti stranieri sul territorio locale provocò diversi danni alle produzioni agricole. Tra i rimborsi chiesti dai possidenti di Roncadelle vi erano 378 zerle di vino (pari a 189 hl) e 360 di uva, oltre a numerosi pali per il sostegno delle viti.
Nel ‘700 si tentò di razionalizzare la coltura della vite, cercando di limitare la sua coltivazione ai terreni più adatti, anche se mancò la volontà di migliorare sia la qualità della produzione vinicola attraverso una selezione di vitigni e di uve di diversa maturazione, sia la vinificazione con l’adozione di tecniche più avanzate. Il Sabatti all’inizio dell’Ottocento lamentò l’ostinata resistenza opposta dai contadini ai moderni metodi di coltivazione, anche perché temevano che qualunque novità costituisse una perdita per loro e un vantaggio per i proprietari; e alcuni esperti indicarono i parroci come possibili maestri popolari “non solo sul terreno spirituale, ma anche produttivo e materiale”.
Alla fine del ‘700 a Roncadelle la viticoltura era ancora abbastanza diffusa, ma la vendita locale era ancora riservata all’antica osteria. Coloro che vendevano vino al minuto in proprio venivano regolarmente denunciati e condannati, come capitò ad alcuni intraprendenti abitanti di Roncadelle e di Onzato: Giovanni Spagnoli nel 1768, Michele Fogazzi e Pietro Felici nel 1786, Giuseppe Dusi e Faustino Gasperi nel 1790. La situazione di monopolio, per di più, favoriva diversi abusi e trasgressioni delle norme emanate in difesa dei consumatori: nel 1790 una ispezione del “provisor di Comun” Giovanni Gabelli nell’osteria di Roncadelle rilevò, ad esempio, irregolarità nella gestione e sottolineò che il vino era di cattiva qualità. La fine del dominio veneto comportò anche il tramonto dell’antica osteria e l’apertura di nuove attività commerciali, soprattutto pubblici esercizi, di pari passo con l’incremento della popolazione locale.
Riguardo alla viticoltura di Roncadelle, Scipione Guaineri scrisse in una relazione del 1818:
“Il vino che si fa sul nostro Territorio è dell’infima qualità dei vini tutti della Provincia Bresciana ed è una parte di agricoltura affatto accessoria ed incerta per la qualità del terreno troppo umido e friggido e della situazione del Territorio molto esposto alle grandi gelate provenienti dalla direzione e dall’aere freddissimo de’ Monti. Inoltre vengono danneggiate molto le viti dall’aratro nella coltivazione del terreno a grano, che si calcola di maggior profitto ed utilità all’Agricoltore, motivi tutti che confluiscono alla breve durata delle nostre viti, che realmente si calcola a venticinque anni. La spesa della rinnovazione delle viti, che si sogliono piantare in un piò di terreno, che regolarmente è un sol filare costituito nel complessivo numero di 40 cespi o trappe di viti, viene a costare Italiane £ 100 e si calcola che altrettanto importi la spesa della coltura e mantenimento ed ingrasso che occorre per li sette anni che si coltivano prima che rendano alcun frutto e possano compensare le grandi fatiche dell’agricoltore”.
Come possidente e rappresentante dei proprietari locali, il Guaineri cercava di minimizzare la resa della viticoltura, come delle altre produzioni agricole. Alla metà dell’Ottocento i terreni “vitati”, ossia parzialmente coltivati a vite, a Roncadelle erano comunque molto estesi, costituendo circa la metà del totale; e vi erano 7 vigne, che avevano un’estensione complessiva di 6 ettari e mezzo.
Ma proprio alla metà ‘800 la viticoltura bresciana subì un vero tracollo a causa dell’oidium tuckeri o crittogama della vite, un fungo parassita, che provocò gravissimi danni alle viti e mandò in rovina molti produttori e famiglie. Venne chiamato anche “mal bianco” perché si manifestava con macchie biancastre. Come ebbe a precisare Vincenzo Bettoni Cazzago (1856-1924): “La mancanza di rimedi rese tanto violenta l’invasione da rovinare non solo l’uva, ma le foglie ed i tralci e da fare morire quasi tutte le viti, che dovettero essere ripiantate… Per undici anni le cantine rimasero chiuse”. Una volta sconfitta la crittogama (con la zolfatura o con acido solforico), vi fu una salutare selezione di colture ed un ridimensionamento delle aree viticole soprattutto in pianura, lasciando il campo alle maestranze più abili e appassionate. Molto utile per la ripresa della viticoltura risultò l’istituzione nel 1861 del Comizio Agrario di Brescia e l’opera innovativa del conte Lodovico Bettoni.
In quel periodo il vino era considerato un farmaco efficace per combattere alcune malattie, come la pellagra e il colera, molto diffuse tra la popolazione. Oltre che come bevanda principale, veniva utilizzato per insaporire varie ricette gastronomiche e persino per “raffreddare” la minestra nel piatto. Ma il suo consumo eccessivo diffuse la piaga dell’alcolismo.
Nel 1880 si dovette affrontare un’altra malattia fungina per le viti, la peronospora, a cui però si trovò presto un rimedio. E poco dopo arrivò la fillossera, un afide di origine nord-americana, che fu devastante per la vite europea (vitis vinifera). Si cominciò allora a piantare vitigni di clinto (ibrido a bacca nera) e di uva americana, le cui radici erano più resistenti alla fillossera, e si diffusero gli innesti con talee e barbatelle di viti americane, sia per combattere la fillossera, sia per avere rese più abbondanti. Inoltre, verso la fine dell’800 i vini locali cominciarono a subire la concorrenza dei vini meridionali, prodotti per lo più in Puglia e venduti a minor prezzo in locali chiamati “trani”.
Tra fine ‘800 e inizio ‘900 a Roncadelle gli osti erano Annibale Conti, Luigi Buratti (con Barbara Conti), Ermenegildo Brambilla (trattoria) in contrada di Sopra; Paolo Bertoli in via Caselle (attuale via Roma); Paolo Baronio, Giacomo Comini, Angelo Ghidini, Cattina Grassi, Teresa Sandrini Bignotti in contrada di Sotto. Poi aprirono anche Matteo Covelli da Trani nel 1908 e Carlo Facchinetti.
Nel corso del ‘900 a Roncadelle si andò riducendo sempre più la viticoltura, ridotta a pochi vigneti marginali e a qualche pergolato ad uso e consumo familiare.
Negli anni ’30 Enzo Barbi avviò l’attività della sua Casa Vinicola utilizzando dapprima produzioni locali e poi la produzione dell’azienda agricola “Decugnano dei Barbi” ad Orvieto, con cui l’area di vendita si andò ampliando a livello nazionale e poi anche all’estero.
Negli anni ’50 vendevano vino in Contrada di Sotto tre osterie (Preti, Ghidesi, Trani), un licinsì (Maria Tobanelli) e due bar sul lato nord, mentre sul lato sud (Castemella) vi erano le osterie di Zanetti e di “Momolo”), oltre la trattoria Stella. In via Roma c’erano l’osteria “Al castello”, il circolo ricreativo E.N.A.L., il circolo A.C.L.I. e successivamente aprì “Alle due piantine”; mentre in contrada di Sopra aprì il circolo Combattenti, dirimpetto alla trattoria Conti. Alcuni nuclei rurali avevano il loro licinsì, spaccio temporaneo per la vendita al minuto del vino di propria produzione.
Nel 1963 è stata introdotta in Italia la denominazione di origine Controllata (D.O.C.) e successivamente la D.O.C.G. per garantire e migliorare la qualità del vino.
La viticoltura a Roncadelle è andata scomparendo nella seconda metà del ‘900, sia in campagna che nel centro abitato, mentre si verificavano notevoli cambiamenti per un miglioramento qualitativo nel settore enologico: disciplinamento legislativo più rigoroso, viticoltura più razionale, tecnologia produttiva più progredita. Oggi i mosti vengono depurati, chiarificati, aggiunti di lieviti selezionati e fermentati in recipienti termocondizionati. I vini si conservano in recipienti di acciaio inossidabile, si invecchiano in legno pregiato e si imbottigliano asetticamente. Abbiamo a disposizione un’enorme varietà di vini locali, anche di alta qualità, ma il consumo di vino pro capite è diminuito, spesso surrogato da altre bevande più o meno alcoliche, più o meno salutari.
Anche se ottenuto con la stessa cura e passione dei secoli scorsi, il vino sembra aver perso l’importanza centrale che ha rivestito nei secoli scorsi per l’alimentazione e per la socialità, segnando così la fine di un’epoca, che ha caratterizzato anche la storia locale e che merita di essere ricordata.