PORCELLAGA A RONCADELLE

Lunedì, 26 Maggio, 2025 - 15:45
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Cultura e Sport
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Lunedì, 26 Maggio, 2025
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La famiglia Porcellaga ha avuto un’importanza fondamentale nella storia di Roncadelle, soprattutto dalla metà del ‘300 alla metà del ‘600.

I più antichi documenti relativi ai Porcellaga risalgono all’inizio del Trecento.

Il primo rappresentante certo della dinastia è Pietro (m. 1336), che risulta figlio di Iohannis de Porzelagis de Yseo. Da tale indicazione possiamo dedurre la zona di provenienza dei Porcellaga, che si trasferirono a Brescia verso la fine del ‘200 presumibilmente per poter sviluppare più proficuamente le proprie attività economiche, ma che conservarono a lungo una casa ad Iseo e stretti legami con famiglie iseane. L’origine del loro nome, forse legata all’attività di allevamento dei suini, venne fatta derivare dall’erba portulaca (porzelaga in dialetto bresciano), adottata poi come simbolo nello stemma gentilizio.

Dagli interessi economici da loro manifestati nella prima metà del ‘300, si può dedurre che i Porcellaga fossero allevatori, dedicatisi poi alla vendita dei loro prodotti. Pandolfo Nassino nel ‘500 li definì ancora, con il consueto sarcasmo, “malgesi” e “beccari”.

Dell’attività di Pietro Porcellaga rimangono poche tracce, ma sufficienti per capire che i suoi interessi economici si indirizzavano verso le Chiusure occidentali di Brescia, dove probabilmente aveva degli allevamenti e dove investiva i suoi guadagni. Tale scelta fu poi proseguita dal figlio Giovannino (m. 1360 ca), che nel 1342 acquistò una grande macelleria in città e continuò ad investire i guadagni in terreni situati nei dintorni di Brescia, tra cui almeno 51 piò nel territorio di Roncadelle e nella cosiddetta “campagna di Fiumicello”. Ma il fatto che sta a testimoniare il raggiungimento di una posizione sociale di riguardo e che ebbe importanti conseguenze anche per la storia di Roncadelle, fu il conseguimento dell’appalto dei dazi e dei “saletti” sul territorio locale intorno al 1345. Per ottenere tale concessione, Giovannino doveva essere gradito ai Visconti, allora signori di Brescia, e dimostrare una certa solidità economica. Dopo aver ereditato altri beni dai parenti, Giovannino lasciò una discreta eredità ai figli, che proseguirono la loro ascesa sociale seguendo le orme del padre e la raccomandazione di non disperdere il patrimonio accumulato, che veniva trasmesso in linea agnatizia. Cominciarono anche ad imparentarsi con famiglie di buon livello sociale: Pecino si ammogliò in prime nozze con Agnesina, figlia di Dolzanino Palazzolo, Bertolino con Cecilia Belasi e Donina sposò Giovanni figlio di Ziliolo Palazzolo.

Dal 1364 Pecino, rimasto l’unico rappresentante maschile della famiglia si fece carico di tutti i doveri e le responsabilità legate alle eredità materiali e morali ricevute. Oltre a gestire il consistente patrimonio, ampliò le proprie attività imprenditoriali introducendosi anche nel redditizio commercio dei pannilana e continuò ad investire in beni immobili considerati la necessaria premessa per far parte della classe dirigente. Sostenendo i Visconti, Pecino entrò nel Consiglio Generale di Brescia e fu tra gli Anziani preposti all’applicazione delle leggi. Fece intraprendere a Galeazzo (figlio di primo letto) gli studi in giurisprudenza, che potevano migliorare ulteriormente la posizione sociale della famiglia e da lui discese il ramo più istituzionale e autorevole della dinastia, i cui membri poterono fregiarsi del titolo di conti, ma che ebbe poco a che fare con Roncadelle.

La riconferma dell’appalto dei dazi e dei “saletti” del Mella nel 1386 sancì l’inserimento del territorio di Roncadelle nelle Chiusure di Brescia (v.) e la concessione di privilegi e immunità a tutti gli abitanti presenti e futuri di Roncadelle. I Porcellaga esercitavano ormai un’incontrastata supremazia sul territorio locale che, tramite l’Hosteria (v.) e alcune guardie armate, tenevano sotto controllo. Pecino progettò allora la realizzazione di una seriola per irrigare la maggior parte dei suoi terreni, ma non riuscì a veder compiuta l’opera, poiché la morte lo colse nel 1392. Lasciò i beni di Roncadelle ai figli Antonio (che fu banchiere, tesoriere del Comune di Brescia e soprintendente alla zecca riaperta da Pandolfo Malatesta nel 1406) e Marco, che visse costantemente a fianco (e all’ombra) del fratello. A loro fu rinnovata la concessione dei dazi e dei “saletti”, che nel 1410 venne resa gratuita e perpetua, a compensazione di un credito che Antonio vantava nei confronti del Comune di Brescia. E fu una vera e propria investitura, grazie alla quale essi poterono unificare i boschi del Mella ai beni di famiglia ed esercitare una signoria territoriale su Roncadelle.

I due fratelli acquistarono le case dei Dolzani in città, portarono a termine la seriola (v.) e progettarono la costruzione di un castello (v.) che rappresentasse, anche visivamente, il proprio dominio su Roncadelle. Ma morirono nel 1411 senza riuscire a vederlo completato.

Il ramo di Antonio si estinse poco dopo, mentre la dinastia venne proseguita dai quattro figli di Marco, che alla morte del padre erano ancora minorenni: Andrea, Cristoforo, Pandolfo-Astolfo e Malatesta-Battista. Furono loro a terminare la costruzione del castello a Roncadelle, nel quale costruirono una abitazione ciascuno, come risulta dalla divisione dei beni effettuata nel 1435.

Durante il tragico assedio di Brescia del 1438, ben otto Porcellaga erano iscritti all’Indice delle Custodie cittadine. Essi rifornirono gratuitamente la città assediata di prodotti alimentari provenienti dai loro allevamenti e dalle loro scorte private ed ebbero poi da Venezia e dalla città di Brescia ampi riconoscimenti e ricompense economiche. Nella difesa di Brescia si distinse particolarmente Astolfo, che partecipò poi costantemente al governo della città ricoprendo vari incarichi pubblici.

Grazie ad una costante propensione al risparmio e all’investimento, a fruttuosi contratti matrimoniali, ai legami col potere politico e al dispositivo testamentario del fedecommesso, i Porcellaga poterono proseguire la loro ascesa sociale e raggiungere mete sempre più prestigiose.

A Roncadelle i Porcellaga si preoccuparono innanzitutto di realizzare le infrastrutture e gli impianti di trasformazione necessari all’economia locale: la “rassega” (segheria), il forno, il torchio, la fornace, le seriole, la macina da linosa, poi il mulino, ecc. Nei granai del castello si immagazzinavano i raccolti che bisognava proteggere e conservare, sia come riserva alimentare che come semente per le successive stagioni. Vennero costruite abitazioni non solo per i dipendenti, ma anche per gli artigiani e i negozianti che intendevano esercitare le loro attività a Roncadelle.

Le proprietà locali, che costituivano per i discendenti di Marco le principali “possessioni” e fornivano loro i maggiori cespiti d’entrata, furono sostanzialmente suddivise tra i figli di Andrea e quelli di Astolfo. Andrea, al quale era riconosciuta dai fratelli una certa preminenza nella gestione del patrimonio di famiglia, morì nel 1449 destinando i propri beni ai tre figli maschi Galeazzo, Ruggiero e Lorenzo (detto Guerriero) che, essendo ancora minorenni, rimasero per alcuni anni sotto la tutela degli zii Astolfo e Battista.

In particolare fu Ruggiero (chiamato anche Rogerio o Rizerio) a gestire le proprietà di Roncadelle e, quando il fratello Lorenzo divenne canonico agostiniano, nel 1470 suddivise il patrimonio familiare con Galeazzo. Ma pochi anni dopo, nel 1479 Ruggiero morì di peste e lasciò tutti i beni al fratello Galeazzo. Nel testamento destinò alla chiesa di S. Bernardino (da poco costruita) la propria cappa rossa da trasformare in pianeta.

I sette figli maschi di Astolfo (m. 1469) rinunciarono al castello e all’osteria e mantennero la proprietà dei terreni situati a nord del centro abitato. Particolarmente attivo fu Pietro, che fece parte del Consiglio Generale cittadino e fu Abate di Brescia a più riprese dopo la morte del cugino Ruggiero, divenendo un autorevole rappresentante della città nelle ambascerie più delicate. Egli si interessò ai beni ereditati a Roncadelle fornendo un’adeguata irrigazione ai terreni e facendovi costruire la cascina di Villa Nuova (v.) all’inizio del ‘500.

Galeazzo, dopo aver accorpato nelle proprie mani le proprietà di Roncadelle lasciate in eredità da suo padre Andrea, nel 1488 le lasciò al figlio Gian Francesco (1458-1527), che dedicò un impegno particolare ai possedimenti di Roncadelle. Egli riunificò la proprietà del castello e dell’osteria, acquistò nuovi terreni, realizzò un mulino (v.) a due ruote presso l’Arenoldo, potenziò la seriola Porcellaga e partecipò alla realizzazione della seriola Castrina, che venne fatta arrivare fino ad Antezzate (v.), dove egli aveva fatto costruire una cascina con casa “da patrone e da massari”.

Gian Francesco, oltre a far parte del Consiglio Generale di Brescia insieme al cugino Pietro, aveva legami anche con la corte pontificia a Roma e ottenne alcuni privilegi da papa Leone X. Negli ultimi anni manifestò una intensa religiosità e subì l’influsso della beata Stefana Quinzani, terziaria domenicana, nel cui convento a Soncino presero il velo monacale le sue due figlie. Con l’ordine dei Domenicani egli ebbe un lungo sodalizio, testimoniato anche dalle generose offerte e dal legato testamentario a favore del (non più esistente) convento cittadino di S. Domenico, dove era priore suo fratello Andrea e dove i Porcellaga avevano la tomba di famiglia.

Tra i figli di Astolfo, anche Antonio e Gerolamo ampliarono e gestirono i loro possedimenti a Roncadelle. Con le sue disposizioni testamentarie, Gerolamo (che morì nel 1515 senza eredi maschi) fece acquistare ai Porcellaga il giuspatronato (v.) sulla chiesa di S. Bernardino; mentre la discendenza di Pietro si innestò nella famiglia Guaineri (v.) a Villa Nuova; e i discendenti di Antonio conservarono a lungo le proprietà di Roncadelle dedicando però gran parte del loro tempo ai viaggi, alla caccia (v.), alle letture, alle feste, ai “piaceri della villa”.

Nel ‘500, un secolo in cui prevalsero l’ostentazione, la pompa, l’emulazione e la competizione tra le famiglie più ricche e potenti, anche i Porcellaga abbandonarono la tradizionale discrezione nel gestire ricchezze e potere. Le loro abitazioni divennero sempre più lussuose e i loro abiti più sfarzosi. I dipendenti diretti dei Porcellaga del castello, che erano otto nel 1543, divennero dodici nel 1548 e ben ventiquattro nel 1627. Una parte delle loro risorse materiali venne devoluta “per la salvezza della propria anima e dei propri defunti” a favore di chiese e ordini monastici, o in beneficenza.

Galeazzo (1493-1537), figlio di Gian Francesco, si dedicò all’ampliamento della chiesa di S. Bernardino e chiamò il Romanino (v.) ad affrescarla; dalla moglie Bianca Federici ebbe un figlio maschio, Sansone (1525-1559), che morì a soli 34 anni lasciando diversi figli ancora minorenni. Tra questi, vi erano tre maschi: Galeazzo, che assunse presto la responsabilità di capofamiglia e che fece ristrutturare il castello, l’osteria e il mulino; Carlo (forse portatore di una disabilità); e Pietro Giuffredo, che venne mandato all’università di Padova.

Ma nel marzo 1573 Galeazzo venne ucciso e sulla famiglia piombò la disperazione. Non sappiamo né il motivo né il nome dell’omicida, perché il processo, nonostante l’interessamento del doge Mocenigo, venne “insabbiato” e le relative carte risultano scomparse; il mandante fu sicuramente un personaggio di famiglia nobile e potente, forse un Martinengo. Per quel delitto i Porcellaga non ebbero giustizia e gli affreschi fatti eseguire in quel periodo nel castello sembrano reclamarla dal Cielo. Pietro Giuffredo, molto religioso, si assunse il ruolo di dare continuità alla dinastia sposando Eliodora Bargnani, da cui nacquero Sansone (1576-1626) e due figlie, Giulia e Grandilia. Rimasto vedovo, nel 1581 Pietro Giuffredo si fece frate cappuccino col nome di padre Giovanni Battista e visse nel vicino convento della Badia.

In quel periodo andarono dilagando in territorio bresciano soprusi, delitti e illegalità di ogni genere. Agli atti criminosi seguivano spesso lunghi processi, periodi di detenzione o di confino, risarcimenti alle vittime. Per ottenere l’assoluzione o la scarcerazione provvisoria si ricorreva alla corruzione, all’acquisto di “voci” di liberazione da chi aveva catturato o ucciso un ricercato, a consistenti sovvenzioni alle attività militari di Venezia. Tutto ciò comportava costi notevoli.

Anche i Porcellaga si fecero coinvolgere nel clima di violenza generalizzata, assumendo ruoli da signorotti feudali e commettendo vari delitti e abusi. Episodi di violenza e lunghe faide nascevano da qualsiasi pretesto, come dimostrano i fatti del Natale 1598, quando Sansone (figlio di Pietro Giuffredo) e Vincenzo (di un altro ramo Porcellaga), accompagnati da alcuni “seguaci et adherenti”, si scontrarono in città per una questione di precedenza con Andrea Martinengo da Padernello ed altri nobili, seguiti dal solito codazzo di bravi, causando due sparatorie. Dagli arresti domiciliari i Porcellaga vennero liberati dal conte Estore Martinengo Colleoni con quaranta uomini armati a cavallo. Il castello di Roncadelle divenne allora un rifugio sicuro e la base di partenza per spedizioni criminali. Dopo aver ucciso Girolamo Calini, Sansone il 19 agosto del 1600 uccise Francesco de Muzzanis a Urago d’Oglio e ai primi di novembre del 1601 Roncadelle fu teatro di uno scontro a fuoco tra lui e Marcantonio Calini fortunatamente senza vittime. Il 25 maggio 1603 riuscì a salvarsi da un agguato tesogli da Lodovico Girelli rifugiandosi per vie traverse nel castello di Roncadelle. Nel dicembre del 1604 Sansone, relegato a Venezia per le sue malefatte, ottenne un salvacondotto di due mesi per sposare Camilla Fenaroli (1593-1647), da cui nacquero una figlia, Veronica, e due figli: Pietro Aurelio (1621-1656) e Orazio detto Sansone (1626-1647), che avrebbero potuto dare un ulteriore seguito all’antica dinastia se non fossero stati travolti dalla spirale di violenza che anch’essi avevano contribuito ad alimentare. Dopo la morte di Sansone, infatti, anche Camilla si macchiò di delitti e abusi di vario genere, tra cui aver commissionato omicidi e l’essersi attribuita la facoltà di disporre dei contadini e delle donne di Roncadelle per lavorare i suoi terreni di Brandico. La figlia Veronica venne condannata per aver attentato (con l’aiuto della madre) alla vita del marito, il conte Carlo Camillo Martinengo da Barco, che aveva l’unico torto di non corrispondere alle sue aspettative.

Pietro Aurelio ospitò e protesse “gente che molestava i mercanti, che commetteva omicidi, stupri, vendette, saccheggi, sequestri di persana ed ogni altro genere di violenze”; e. come racconta il Capretti, pretendeva “che tutte le donne di Roncadelle andassero alle feste, che egli dava nel suo castello; e mandava a prendere per forza, alcune anche schiaffeggiando, quelle che si mostravano riluttanti. E perché il Curato del luogo biasimò e fece biasimare anche in chiesa la condotta delle sue parrocchiane e separatamente ammonire da persona confidente il Porcellaga di essere più riservato, Pietro Aurelio, sdegnosamente, mandò a chiamare il Curato; e, dopo averlo acerbamente ripreso, lo fece da’ suoi satelliti bastonare”. Ci fu chi pagò con la vita l’opposizione al Porcellaga, come Cipriano Bonometti, ucciso sull’uscio di casa per essersi rifiutato di mandare sua figlia alle feste in castello. Ma, “per la paura che si aveva di lui in Roncadelle, né i parenti delle vittime, né i Consoli della Terra, denunciarono alle Autorità le nuove violenze”. Infine, grazie ad un espediente del marchese di Galeranda, che organizzò un agguato d’accordo con i Rettori di Brescia, Pietro Aurelio venne arrestato presso il ponte del Mella dopo uno scontro armato, nel quale rimase ucciso suo fratello Sansone. Era il 3 aprile 1647. Il giorno dopo la madre Camilla, nell’apprendere la notizia, morì di crepacuore. Pietro Aurelio venne condannato definitivamente prima alla prigione, poi al servizio di rematore nella marina da guerra di Venezia. Morì nel 1656 lasciando come unica erede la figlia Chiara Camilla, avuta dalla moglie Ippolita Averoldi.

Chiara Camilla sposò poi Gaspare Giacinto Martinengo Colleoni (v.), aprendo una nuova pagina della storia locale e, quando morì nel 1698, volle essere sepolta nella chiesa di S. Bernardino, quasi a voler sancire il secolare legame della sua famiglia con la terra e la comunità di Roncadelle.