PAESAGGIO

Mercoledì, 17 Dicembre, 2025 - 16:30
Ufficio: 
Cultura e Sport
Data pubblicazione: 
Mercoledì, 17 Dicembre, 2025
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Il paesaggio è una ricchezza fondamentale sia per la sua valenza ambientale ed estetica, sia perché costituisce un elemento essenziale della nostra identità culturale. L’analisi del paesaggio e delle sue trasformazioni riguarda l’intreccio di aspetti naturalistici, storici, climatici, economici, demografici ed ecologici, ossia di tutti i sistemi naturali e umani che agiscono sul territorio. L’aspetto attuale del paesaggio locale, che ha subito enormi modifiche nell’ ultimo secolo, deriva in realtà da almeno venti secoli di graduali trasformazioni, che cerchiamo di ricostruire in queste pagine, sopperendo ai vuoti documentari dei secoli più lontani con ipotesi attendibili, derivate da conoscenze più generali.

 

L’aspetto attuale. A chi lo osserva oggi, il territorio di Roncadelle appare completamente antropizzato e suddiviso in tre settori ben definiti: il centro urbano a sud-est, l’area a sviluppo industriale e commerciale a nord-est, l’area a destinazione agricola ad ovest.

 

Il triangolo meridionale compreso tra la strada provinciale 235, l’autostrada “Serenissima” e la roggia Mandolossa costituisce l’area più intensamente urbanizzata, che racchiude quasi tutti gli insediamenti residenziali: villette singole e casette a schiera protette da minuscoli giardini o nascoste da alte siepi, palazzine signorili e condomini popolari, ammiccanti insegne di bar e vetrine di negozi, si alternano ad ampie zone verdi. Le antiche contrade sono appena riconoscibili, conglobate ormai in un unico centro abitato, dominato da costruzioni recenti, alcune delle quali sembrano sfidare l’imponente struttura del palazzo Guaineri, tradizionalmente chiamato “castello”, e l’esile profilo del vecchio campanile. È sempre più difficile identificarvi le vecchie cascine, un tempo fulcro della vita sociale ed ora quasi spopolate o trasformate in moderne residenze.

 

La porzione di territorio a nord del centro urbano, in gran parte occupata dai maggiori insediamenti produttivi e commerciali del paese, è scandita in settori da grandi arterie stradali (autostrada A4, tangenziale Sud e strada statale 11) e ferroviarie (Brescia-Milano e Brescia-Iseo), che appaiono come i decumani di una recente colonizzazione. La zona è dominata da due grandi centri commerciali, circondati da un intricato sistema viario e da ampi parcheggi brulicanti di automobili e di consumatori provenienti da varie località. Nella parte sud-orientale di quest’area si distingue a malapena il vecchio agglomerato rurale di Villa Nuova, in gran parte trasformato in laboratori artigianali.

 

Il grande rettangolo di territorio ad ovest del Mandolossa è invece rimasto legato quasi interamente all’antica vocazione agricola, come testimoniano ancora oggi i regolari riquadri dei campi e dei prati, che cambiano colore ad ogni stagione; la rete idrografica, evidenziata dalla vegetazione arborea e arbustiva, vi costituisce un importante elemento paesaggistico ed ecologico; le aree sul confine occidentale, utilizzate a lungo per l’escavazione di ghiaia, sono state oggetto di recupero ambientale ed un laghetto richiama gli appassionati di pesca. Pochi insediamenti abitati si sono aggiunti agli storici cascinali di Antezzate, Fedrisa e Santa Giulia.

 

Del bosco originario, come anche degli acquitrini, che in passato ricoprivano gran parte del territorio locale, non è rimasta traccia. La vegetazione spontanea è molto ridotta; gli alberi sono più diffusi nel centro urbano che nella campagna, dove “gli unici alberi rimasti si trovano sugli argini dei fossi intorno ai campi e nei pochissimi incolti, ma non sono le querce di un tempo, sono le americane robinie, i sambuchi, i platani, i gelsi un tempo numerosissimi e ora sempre più malati e rari” (Maria Grazia Lombardi, 1991).

 

I corsi d’acqua, che hanno avuto in passato un ruolo fondamentale nell’organizzazione del territorio condizionando la presenza dell’uomo, l’utilizzo dei terreni, la localizzazione degli insediamenti e delle colture, sono ora quasi sempre poveri d’acqua, anche se nei periodi di più intense precipitazioni creano ancora qualche preoccupazione; il loro alveo è comunque ben definito e protetto da appositi argini. Il Mella (v.), proveniente dalla Val Trompia, delimita il confine orientale del territorio di Roncadelle; ha alte ripe, protette da argini di cemento e a tratti coperte da folta vegetazione, che ne fanno una presenza non più minacciosa e quasi invisibile agli occhi degli abitanti.

Nella parte occidentale del territorio scorre il torrente Gandovere, proveniente dalla Franciacorta, che all’altezza di Castegnato si divide in due rami, uno dei quali attraversa Roncadelle col nome di “fosso Gandovere”, bagna la cascina Fedrisa per poi dirigersi a Torbole; mentre l’altro prosegue lungo la strada provinciale 510 fino alla località Mandolossa, dove riceve l’apporto del torrente Canale dalla valle di Navezze, attraversa il territorio di Roncadelle da nord a sud col nome di “roggia Mandolossa” per poi dirigersi verso Castelmella ed Azzano, dove confluisce nel Mella.

Le canalizzazioni, che fino a pochi decenni fa si ramificavano tra i terreni, sono quasi del tutto scomparse nella zona urbanizzata, in gran parte conglobate nella rete fognaria del paese; come scomparsi sono anche i fontanili, che hanno lasciato qualche ricordo nella toponomastica locale.

 

Il paesaggio originario. La storia del paesaggio locale inizia con il lavoro incessante di depositi, di scavi, di riflussi, di esondazioni, di erosioni da parte delle acque fluviali provenienti dai monti.

 

Originariamente il territorio locale era tutto dossi, sassi, sterpaglie, bosco, acquitrini ed, essendo poco ospitale, rimase a lungo pressoché disabitato. Anche la scarsa produttività del suolo determinò un ritardo degli stanziamenti demici, soprattutto nella zona vicina al Mella, la più martoriata ed insidiosa.

 

All’abbondanza di acque nella parte meridionale del territorio, dove sgorgavano anche varie sorgive, corrispondeva una certa aridità nella parte settentrionale, dove l’acqua defluiva rapidamente e si era formata una brughiera sassosa. Non era quindi un paesaggio uniforme quello che si presentava in epoca pre-agricola, ma un ambiente piuttosto articolato con boschi tendenzialmente igrofili contrapposti a boschi di impronta subcontinentale, a volte rigogliosi, a volte diradati. A dominare il paesaggio erano soprattutto le maestose e longeve farnie, con le loro chiome ampie e i tronchi robusti, insieme agli svettanti pioppi neri, che emergevano su un più basso strato arboreo, composto prevalentemente da cerri, tigli, carpini bianchi e olmi, e su un consistente consorzio arbustivo a prevalenza di frangole, evonimi, cornioli e viburni. Negli alvei fluviali abbondavano salici bianchi e pioppi bianchi, mentre sulle superfici acquitrinose erano soprattutto frassini e ontani neri ad emergere su una vegetazione igrofila di erbe alte e di carici.

 

L’antichità. In epoca protostorica l’ambiente, che si prestava alla caccia, alla pesca e alla raccolta di frutti selvatici, divenne per l’uomo anche una preziosa riserva di legna e di materiale da costruzione. Vi furono probabilmente ritagliate alcune radure da adibire a coltivazione con le rudimentali pratiche del “debbio” o del “campo ad erba”. Ma la scarsa presenza di uomini in cerca di qualche fonte di sussistenza non poteva incidere che in modo marginale sulle trasformazioni del paesaggio. La fauna selvatica vi stazionava quasi indisturbata. Selve e boschi venivano comunque rispettati come beni di grande utilità, a volte considerati ambienti sacri, come accadde al vicino boschetto di Onzato.

 

La colonizzazione romana incise profondamente sull’assetto ambientale locale con la centuriazione (v.), che trasformò in aratorio (ager) la parte occidentale del territorio attraverso una grandiosa opera di disboscamento, livellamento, bonifica e sistemazione idraulica. La parte orientale del territorio, più vicina al Mella, rimase invece incolta (saltus) perché troppo onerosa da bonificare, ma anche per una sua utilità complementare: infatti, oltre a fornire legname, selvaggina e frutti selvatici, consentiva allevamenti (v.) di suini ed ovini e forse anche di api. Gli stessi poderi agricoli erano spesso strutturati in connessione con un’area boschiva, dove abbondavano pioppi, ontani, salici, cerri, querce e carpini.

 

Alla fine del I secolo d.C. il paesaggio agrario presentava un regolare reticolo di campi coltivati ben delineati e delimitati da strade vicinali fiancheggiate da fossi e da filari di alberi, buona parte dei quali sostenevano viti a festone. Vi si distinguevano le abitazioni per i coloni e per gli schiavi addetti alla coltivazione: si trattava per lo più di capanne di argilla e legno, di cui non è rimasta traccia trattandosi di materiali deperibili. Mancano anche tracce sicure di ville rustiche di possidenti cittadini, che pure devono avere avuto proprietà sul territorio, come dimostra il ritrovamento di una epigrafe (v.), a meno che risalisse all’epoca romana l’antica struttura scoperta (e poco analizzata) nei pressi di Antezzate in occasione dell’ampliamento della tangenziale Sud.

 

Per quanto riguarda il paesaggio fluviale, si ritiene che i Romani abbiano attuato un primo incisivo intervento sul corso del Mella, proprio nel tratto ad ovest della città; per garantire un deflusso più regolare e meno pericoloso delle acque, modificarono probabilmente il corso del fiume e la pendenza dell’alveo, rendendolo anche navigabile.

 

Il cambiamento del paesaggio insediativo comportò un nuovo paesaggio sociale. Anche se l’abitato era sparso, si crearono infatti rapporti di vicinanza e di necessaria collaborazione tra i coloni e con la manodopera servile, che dovettero formare una prima comunità sul territorio locale.

 

La decadenza dell’Impero romano ebbe effetti nefasti sull’organizzazione economica e sociale: la popolazione si andò riducendo e molti terreni agricoli vennero abbandonati. Il susseguirsi di guerre, saccheggi ed epidemie indussero nella popolazione residua un senso di sfiducia, che si manifestava anche nell’incuria verso l’ambiente: le campagne rimaste deserte e incolte vennero di nuovo invase da boschi e paludi; buona parte delle opere di irrigazione e di bonifica andò in rovina, mentre gli animali selvatici tornarono a vagare nelle campagne e nella città stessa, ormai ridotta a poche migliaia di abitanti, come sottolineò anche il vescovo Ambrogio di Milano, che considerava Brescia tra le città un tempo fiorenti e divenute poi spopolate e semicadenti.

 

L’Alto Medioevo. La contrazione demografica sul territorio locale, determinata e acuita da guerre (v.), epidemie (v.) e raffreddamento del clima (v.) con conseguenti carestie, comportò un intenso rimboschimento naturale, mentre lo spazio per le coltivazioni appariva disperso tra boschi, sterpeti e paludi.

 

Con l’affermazione dei Longobardi (v.), che nel 569 fondarono un importante ducato a Brescia, vi fu una relativa ripresa dei lavori agricoli, ma la parte selvosa del territorio assunse un ruolo più rilevante, tanto da diventare proprietà del fisco regio. Il bosco era considerato una ricchezza naturale perché, oltre a costituire una fascia di protezione contro le periodiche alluvioni, forniva in abbondanza legna per il riscaldamento, selvaggina, legname da costruzione, frutti selvatici, concime e consentiva il pascolo degli animali. La vasta area boschiva locale, così congeniale alla mentalità e alle tradizioni longobarde, divenne infatti territorio di caccia (v.) e di rifornimento di legname, ma anche di allevamenti (v.) allo stato brado; con le sue querce, il bosco ad alto fusto forte era l’habitat ideale per il redditizio allevamento di maiali, tanto da essere definito (per la sua naturale capacità di fornire ghiande) silva glandifera o silva fructuosa. I contadini utilizzavano il legno dei boschi, oltre che per il riscaldamento, anche per costruire manufatti artigianali e per l’edilizia. Ma, mentre i boschi cedui dopo il taglio sono in grado di rigenerarsi, ciò non è possibile per la quercia (rovere e farnia) abbattuta. Non a caso le normative medievali, dall’editto di Rotari (643) agli Statuti comunali, si preoccuparono di regolamentare lo sfruttamento boschivo per tutelarne la conservazione.

 

Verso la fine del dominio longobardo, una parte consistente del territorio locale divenne una curtis regia di proprietà della corona, in parte coltivata a prati e a vigne e in parte mantenuta selvosa per le cacce reali e come riserva di legname per il palazzo ducale di Brescia. Nel 760 la curtis, formata da 50 iugeri di terreni coltivati e 50 iugeri di area selvosa, venne donata al monastero femminile di San Salvatore, poi dedicato a Santa Giulia. La curtis (v.) divenne così la protagonista dell’organizzazione del territorio e della comunità locale e, per alcuni secoli, si dedicò allo sviluppo economico locale. Oltre a provvedere alle produzioni alimentari (almeno per l’autoconsumo), riavviò un lento recupero dell’incolto e di alcune aree boschive all’agricoltura, nonostante la scarsa disponibilità di strumenti efficaci, quali utensili in ferro, energia umana e animale e concimi. Dall’inventario compilato intorno al 900 deduciamo che, nella parte dominicale della curtis di Torbole-Roncadelle, erano coltivati soprattutto cereali minori, come segale e orzo, ma non mancavano il grano e le viti. In assenza di dati sulla parte massaricia, ritorna utile il confronto con le altre curtes dell’inventario, dalle quali risulta che il cereale più diffuso era la segale; seguivano il frumento, il miglio, l’orzo e l’avena; poi altri cereali minori e i legumi; mentre la vite aveva una presenza marcata.

 

Il paesaggio locale si presentava quindi con ampi spazi occupati da boschi, dove svettavano pioppi bianchi, betulle, farnie e varie specie di querce, carpini e olmi campestri, mentre il sottobosco presentava un intricato sistema di rovi, felci, cespugli di cornioli, noccioli, sambuchi e il manto erboso era ricco di muschi e fiori. Ma vi erano anche radure incolte (a volte paludose), inframmezzate da campi coltivati e da vigneti. Tale paesaggio rimase pressoché immutato fin dopo l’anno Mille.

 

Il Basso Medioevo. Dal sec. XI, in concomitanza con un deciso incremento demografico, iniziò l’opera di riconquista delle terre abbandonate e di dissodamento di terreni incolti o boschivi da parte soprattutto dei monasteri: le monache di S. Giulia si occuparono delle proprietà di Roncadelle, mentre gli abati di S. Faustino si dedicarono al vicino territorio di Torbole. Nel sec. XII, grazie anche ad un clima più mite, i campi coltivati ripresero ad espandersi a scapito dei boschi e delle brughiere e si ricominciò a canalizzare le acque per l’irrigazione; fu incanalato anche il fontanile che diede origine al vaso Arenoldo o Renolda, grazie ai monaci di Torbole, che vi mantennero a lungo una compartecipazione. E il volto del paesaggio locale cambiò nuovamente. Accanto alla proprietà dominicale, comparvero sempre più case massaricie accompagnate da campi coltivati, vigne, prati e pascoli condotti da liberi massari, che versavano al monastero o ad altro proprietario un censo annuo.

 

Nel secolo XI il territorio locale cominciò ad essere chiamato Runkethelle o Roncadelli (ossia “piccoli ronchi”), un nome (v.) che rimanda in maniera esplicita ai dissodamenti effettuati in quel periodo e che richiama un paesaggio naturale certamente abitato, ma ancora poco antropizzato.

 

Il possesso della vasta corte rurale consentiva al monastero di S. Giulia di esercitarvi una supremazia economica e giuridica, che però non si dimostrava sempre adeguata alle necessità di difesa e di sviluppo del territorio locale, tanto che nel 1298 il Comune di Brescia lo pose sotto la custodia delle Chiusure cittadine: era il primo passo per trasformare Roncadelle da luogo ancora disertato a villaggio stabilmente abitato.

 

Fu probabilmente in quel periodo che venne edificata in pietra (o, meglio, in sassi e malta) la sede della curtis locale di S. Giulia, poi denominata S. Giulina (v.), all’estremità ovest dell’attuale via S. Bernardino. Ne ritroviamo una prima descrizione generica in un documento del 1315, dove si cita una “domum magnam, alias domos, fenille et molendinum”, nonché un “curtivum” e un “pontem”. Era quindi formata da un edificio con più case e fienile, un ampio “cortivo” e un mulino attivato dalle vicine acque del Mandolossa; mentre un documento del 1306 accenna ad una piazza (platea) davanti alla chiesa di S. Giulia nella stessa area. Il monastero aveva quindi fatto costruire anche una chiesetta, che svolse la funzione di riferimento religioso locale per almeno due secoli, ed un mulino ad acqua successivamente descritto a due ruote; mentre sulla via degli Orzi gestiva un hospitium (v.) con finalità caritativo-assistenziali. In quel periodo fu il monastero di S. Giulia a riorganizzare lo spazio agrario, ampliando i poderi coltivati, incrementando gli allevamenti sui terreni incolti, costruendo nuovi edifici, riducendo gli spazi boschivi; venne così modificato il paesaggio visibile, ma anche quello invisibile, costituito dalle reti sociali tra gli abitanti locali e il monastero, nonché dai legami di solidarietà tra gli abitanti e dall’autocoscienza collettiva.

 

La presenza di una chiesa svolse un ruolo importante nel processo di formazione della società locale, come luogo dove le famiglie intrecciavano relazioni e acquisivano un senso di appartenenza, dove la comunità affermava i propri valori e la propria identità. Proprio davanti alla chiesa di S. Giulia la comunità rurale, riunita in vicinia (v.), cominciò ad organizzarsi e a farsi valere, almeno dall’inizio del ‘300, non solo chiedendo la presenza di un sacerdote permanente, ma anche rivendicando diritti sui terreni incolti e sui boschi locali, considerati beni collettivi da sfruttare secondo il diritto consuetudinario.

 

Pur non esistendo alcuna forma di pianificazione per la tutela del territorio e dell’ambiente, si tendeva ad uno sviluppo partecipato e sostenibile; la natura veniva modificata dalle attività economiche degli uomini necessarie al loro sostentamento, ma veniva difesa quando poteva rappresentare un vantaggio per la collettività, come nel caso dei pascoli e dei beni comuni. Veniva contrastata sia la forte contrazione degli incolti, che svolgevano una funzione fondamentale per garantire l’allevamento e la concimazione dei suoli, sia la riduzione degli acquitrini, che potevano fornire pesci, rane, uccelli acquatici, nonché la presenza di salici, canneti, pioppi, ecc. Le coltivazioni dei diversi prodotti erano dirette quasi esclusivamente al consumo locale. In tal modo era garantito un equilibrio “ecologico” tra la comunità e l’uso del territorio. Nello stesso documento del 1315 sopra citato si specifica che il conduttore non doveva togliere alcun albero verde da frutto, né di salice; nel caso in cui ne avesse tagliato uno per l’uso della propria casa, era tenuto a ripiantarne subito un altro.

 

Nei regesti degli atti d’acquisto si parla di contrade “Carpeni”, “Oneda”, “Albarellis”, “Ceredi”, “Saletti”, a testimonianza di una consistente presenza di carpini, ontani, pioppi, cerri e salici; mentre i nomi di altre zone del territorio, come la “contrata Lame” a sud-ovest, le contrade “Tayate” e “Murathelli” a nord, la “Breda Sabia” (o “Savia”) a sud-est, la “contrada Brayde Cative” all’interno, la “contrata Clavige” a nord-ovest, sono testimonianze del paziente e tenace lavoro che dovettero sostenere i contadini in quel periodo per recuperare terreni incolti e acquitrinosi all’agricoltura.

 

Con la crisi delle istituzioni monastiche, il processo di allargamento delle terre coltivate venne assunto e continuato dalle emergenti forze sociali che si andavano organizzando in quel periodo e soprattutto dalla borghesia cittadina più intraprendente, che intendeva affermarsi socialmente anche attraverso il possesso di territori sempre più vasti. Questa corsa alla terra fu stimolata anche da una favorevole congiuntura economica, che determinò un rialzo dei prezzi dei prodotti agricoli sotto la spinta di una crescente domanda. Intorno alla metà del ‘300 si interessarono al territorio locale, soprattutto i Porcellaga (v.) che, dopo essersi arricchiti con gli allevamenti suini e le macellerie cittadine, vi acquistarono diversi terreni e vi ottennero l’appalto dei dazi e dei “saletti” del Mella. Furono loro a destinare alla coltivazione nuovi terreni nel corso del ‘300 e ad avviarvi nel 1393 una seriola (v.) che, prendendo le acque del Mella ad Urago, era in grado di irrigare i campi recuperati dall’incolto e dagli acquitrini nella parte orientale del territorio.

 

I documenti del ‘300 parlano di terreni arativi, vithati, prathivi, arborivi, brolivi accanto a terreni lamivi, buschivi, vegri, guastivi, spinosi. Vi si coltivavano cereali, foraggio, vite, alberi da frutto e legumi. Oltre ai cereali (frumento, segale, miglio, orzo, avena, melga, spelta, panico), aveva una buona diffusione la vite; e non mancavano distese a prato, necessarie alla produzione del foraggio e al periodico riposo del terreno. Il terreno più argilloso veniva utilizzato per la produzione di manufatti di fornace, soprattutto laterizi (“quadrelli” e “coppi”) e in seguito anche scodelle e boccali in ceramica, tanto che un terreno presso l’Arnoldo era chiamato “Breda Maiola” e poi “Fornasetta”.

 

Con la decadenza del potere comunale di Brescia, la corsa alla conquista di terre da coltivare subì una battuta d’arresto; mentre un peggioramento climatico e la diffusione delle epidemie pestilenziali nel XIV secolo provocarono una nuova contrazione demografica con conseguente diminuzione della produzione agricola. Nel 1386 il territorio locale (per la parte compresa tra il Mella e il Mandolossa) entrò a far parte delle Chiusure di Brescia (v.) e quindi alle dirette dipendenze della città, che volle favorirne lo sviluppo con la concessione di esenzioni fiscali e privilegi (v.).

 

Così, nel corso del ‘400, venne compiuta l’ultima grande espansione dell’aratorio, con la messa a coltura di tutte le terre utilizzabili, che definì lo scenario del territorio ed il paesaggio rurale, rimasti poi pressoché immutati per quattro secoli. La crescente incidenza dei ceti signorili nell’agricoltura portò ad espandere sia la viticoltura (v.) che la coltivazione del frumento, con cui ottenere il pregiato pane bianco, a scapito dei cereali minori.

 

Gli insediamenti abitati. Oltre alle abitazioni coloniche sparse sul territorio coltivato, che era stata la forma di insediamento dominante fino ad allora, la popolazione aveva esigenze abitative sempre più funzionali e sicure.

 

Alla necessità di protezione avevano provveduto, per qualche tempo, delle strutture parzialmente fortificate, come risulta dai toponimi “contrata Guarde” presso la strada di Orzinuovi e “contrata Casteleti” vicino al Mella, che lasciano ipotizzare la presenza di una torre d’avvistamento e di un cascinale con qualche carattere difensivo. Ma furono i Porcellaga ad edificare a Roncadelle un vero e proprio castello (v.), anche se dall’aspetto poco arcigno, all’inizio del ‘400 per affermare il loro dominio sul territorio e assicurare una certa protezione agli abitanti. Il castello, edificato su una emergenza del terreno tra la Breda Sabbia e il Mandolossa, venne dotato di fossato, muraglie e torre; e divenne il nucleo centrale della signoria locale, sede di guardie private, residenza di campagna dei proprietari, magazzino agrario e principale riferimento amministrativo e organizzativo del paese.

 

Alle abitazioni rurali provvedevano i possidenti con apposite strutture, chiamate cassine, erette a presidio e utilità dei loro beni fondiari tra il ‘300 e il ‘400. Andarono sorgendo così piccole e grandi cascine, soprattutto nella Contrada dei Cortivi di Sopra (nei pressi dell’antica cascina di S. Giulina), dove vennero gradualmente allineati edifici in muratura, con corte aperta sul lato sud e ingresso sul lato nord; da un portico interno, si accedeva alle abitazioni dei massari e dei rustici e alle stalle, ma vi erano anche fienili, cantine, granai, porcili e pollai. Una di queste, appartenuta a Bonifacio Ugoni, venne acquisita dai Porcellaga insieme ai relativi terreni (122 piò) intorno al 1389: si trattava di un cortivo con casa parzialmente “copata”, munita di portici, fienile, muraglie, pozzo ed aia.

 

Nella Contrada di Sotto, accanto alla loro Hosteria (v.), i proprietari del castello fecero costruire nel ‘400 alcune case con botteghe munite di portico, che nel 1517 vennero descritte come “corpi cinque di case alla strada di Torboli con porteghi” e altri due “corpi di casa a testa del zardino in detto loco”.

 

Le due contrade andarono poi espandendosi da ovest ad est, come due villaggi paralleli e separati; mentre i tre grandi possedimenti locali dei Porcellaga erano gestiti da tre cascine costruite nel ‘400: quella accanto al castello per le proprietà di Roncadelle situate tra le due contrade (oltre 200 piò), la cascina di Antezzate (v.) per i terreni situati nella zona nord-occidentale (circa 350 piò) e il cascinale di Villa Nuova (v.) per le proprietà dei “cugini” Porcellaga nell’area nord-orientale (oltre 160 piò). La cascina del castello nel ‘600 venne descritta con “corpi otto di stanze terranee et altretante superiori, con tratti otto di fenile, con stalle due et corte di piò uno in circa”. Quella di Antezzate era “un casamento con corpi doi di stanze terranee et molte superiori per uso mio, insieme con cinque altri corpi di casa et cinque di fenile, con stalla et colombara, ara et horto, quattro altri corpi di casa con sette di finile, con stalle, ara et horto per uso delli Massari, altri trei corpi di stanze terranee per uso del malghese, tutto cinto di muro eccetto che gli horti”. La cascina che diede il nome a Villa Nuova era un cortivo per padrone e massaro con un brolo a sud; nel 1561 venne descritto come “unum cortivum cum domibus et area simul se tenenti … cum tractibus tribus fenilium et stabulo pro patrono intus dictum portonum cum coquina et porcili et iure hauriendi aquas a puteo. Si trattava quindi di una semplice struttura rurale, cui si accedeva da un portone, dotata, oltre che delle stanze di abitazione, di un’aia, di tre “tratti” di fienile sopra portico a tre arcate, di una stalla per il cavallo del padrone, di una cucina, del porcile e del pozzo. Sul lato ovest i Porcellaga eressero un secondo cortivo composto da due corpi di case con una cucina, da una stalla e due tratti di fienile e da aia, orto, forno, pollaio, porcile e pozzo. Nei pressi del Mella esisteva anche una segheria (rassega) dei Porcellaga.

 

 Nel ‘500 i Porcellaga fecero inoltre costruire, tra il castello e la chiesa, anche “più casette di brazenti fitate a più persone”, ossia abitazioni economiche per braccianti, poi chiamate “caselle”.

 

Nello stesso periodo i Federici, per la gestione dei loro terreni di Roncadelle (oltre 80 piò), eressero la Fedrisa (v.) descritta nel ‘600 come “casa per uso del Patrone et Massaro et Malghese con ara et horto et chiesiola”.

 

Per le esigenze gestionali dei vasti possedimenti locali del monastero (circa 600 piò), si dimostrava sempre più insufficiente l’antico nucleo rurale di S. Giulina, descritto nel ‘600 come un “locho da massaro e malgese” di 15 tratti, con case per il fattore, otto stanze al piano terra e due al piano superiore, due solai, un’aia con orti e un brolo a monte. Sorse allora, sulla strada per Travagliato, la cascina di Santa Giulia (v.), descritta nello stesso periodo come “cortivo per alloggio di tre massari et malghese, con ara, horti et fenili et stalle con suoi portici avanti”. Anche questa, come la cascina di Villa Nuova, era destinata ad ampliarsi a corte multipla verso ovest.

 

Costruite utilizzando ciottoli e laterizi, le cascine erano generalmente a pianta quadrangolare, al cui centro era situata la corte (il cortile o l’aia), aperta sul fronte sud per favorire una migliore esposizione al sole e attorniata da vari edifici: stalle, fienili, granai, pozzo, forno, magazzini, deposito attrezzi e, naturalmente, abitazioni dei contadini, riunite in un’unica struttura spesso a due piani, con porticato coperto da un loggiato in legno. La grande aia, inizialmente in terra battuta, venne poi lastricata per consentire lo svolgimento di alcune lavorazioni dei cereali. A volte vi era una colombaia o una “passerera”. Le maggiori cascine erano munite di cappella o chiesetta. Quelle più isolate nella campagna tendevano ad assumere l’aspetto di piccole fortezze, a corte chiusa, con grosse mura perimetrali. I portoni di accesso erano sufficientemente ampi da lasciar transitare i carri agricoli e venivano rigorosamente chiusi con catenaccio al calar del sole.

 

Nella seconda metà del ‘400 sorse anche la chiesa di S. Bernardino da Siena a poca distanza dal castello, destinata a diventare nel ‘500 la chiesa parrocchiale (v.), dove la comunità locale si ritrovava e si riconosceva nelle comuni devozioni religiose e dove i sacerdoti esercitavano la cura d’anime assistendo i fedeli dal battesimo fino alla sepoltura.

 

Il castello e il campanile della chiesa costituivano le emergenze architettoniche e sociali del paesaggio locale ed attorno ad essi si sviluppò l’abitato, che si andò definendo in una forma rimasta piuttosto stabile nei tre secoli successivi, quando la popolazione locale restò assestata intorno ai 700 abitanti: due contrade distinte e un nucleo centrale attorno al castello, che le teneva unite; un paesaggio urbano composto da tre realtà diverse, formate ognuna da una trentina di abitazioni e destinate a diventare una sola comunità e un unico centro urbano. Il modello abitativo del villaggio andò rafforzando i legami di solidarietà tra le famiglie locali, unite da comuni interessi e dalla stessa fede religiosa.

 

L’età moderna. Intorno alla metà del ‘500 il paesaggio di Roncadelle risultava molto diverso da quello deducibile dai documenti del ‘300. Le aree paludose erano quasi scomparse; i boschi e la brughiera notevolmente ridotti. Filari di alberi e di cespugli evidenziavano i percorsi della rete irrigua e delle strade disegnando tracciati regolari sul territorio, tra campi coltivati e prati a maggese. Il colore dell’arativo si alternava al verde dei prati.

 

I nuovi investimenti nell’attività agricola avevano migliorato la produttività dei terreni, anche per l’opera di sistemazione idraulica e di canalizzazione delle acque. Oltre alla seriola Porcellaga (v.), si utilizzavano anche le acque sorgive a scopo irrigatorio. Alla rete di canali, rogge e fossati già realizzati si aggiunse nel 1507 la Castrina, che dall’Oglio fu fatta arrivare fino ai terreni di Antezzate. La roggia Mandolossa, alimentata anche da un ramo del torrente Gandovere, forniva acqua ai terreni circostanti e alle attività di due mulini (v.) esistenti; oltre a quello di S. Giulia, era sorto anche un nuovo mulino dei Porcellaga ad ovest del castello. Le acque del Mella, nonostante gli argini, continuavano però ad invadere spesso i terreni limitrofi, arrivando fino ai piedi del castello.

 

I possedimenti dei Porcellaga del castello erano “più pezzi di terra aradora et parte vidata et parte prativa”, ma non mancavano boschi e terreni poco produttivi. In particolare possedevano 30 piò di terra lungo il Mella, in parte “boschiva e prativa” e in parte incolta “per essere grandemente sottoposta alla Mella et esser geriva”; ad est del castello la Breda Sabbia (attuale “cono ottico”) di circa 25 piò, coltivata solo in parte; ad est della chiesa un vasto campo coltivato di oltre 20 piò, chiamato “la Bernardina”; a sud del castello, tra l’osteria e la Renolda, vari appezzamenti coltivati (circa 45 piò) tra cui il grande brolo del castello; tra la Renolda e il Mandolossa una larga fascia di circa 80 piò “parte boschiva et parte aradora et vidata et parte gieriva et sassosa et piena di arzeni”; appena al di là del Mandolossa, presso la strada di Torbole, possedevano un prato di circa 16 piò.

 

Nell’edilizia rurale e nell’organizzazione agricola vennero sempre più coinvolti i possidenti cittadini, molti dei quali nel ‘500 vollero disporre di una villa di campagna, in cui trascorrere alcuni mesi all’anno lontano dagli affanni (e dai miasmi) della città e a contatto con la natura. Tale scelta era raccomandata da Agostino Gallo, che era in ottimi rapporti con i Porcellaga di Villa Nuova, sia per seguire da vicino i lavori agresti introducendovi le opportune innovazioni, sia per trovare “la buona pace, la vera libertà, la sicura tranquillità e ogni soave riposo” e per godere della bellezza del paesaggio, del quale egli esalta “l’aprico aere”, le verdi fronde degli alberi, i preziosi frutti, la chiarezza delle acque, la prospettiva dei monti, la bellezza dei boschi, la spaziosità delle campagne, la fertilità dei terreni, l’utilità delle viti e la bellezza dei giardini.

 

Il nuovo sviluppo economico del paese, il lungo periodo di pace garantito da Venezia dopo la pace di Lodi, l’aumento della ricchezza e del gusto artistico dei possidenti e della nuova borghesia, la ricerca dei piaceri della villa di campagna, produssero cambiamenti anche nel modo di vivere e di pensare, nonché sull’aspetto urbanistico e architettonico locale. Il modello di vita rinascimentale, che si andava diffondendo in molte città, ebbe ripercussioni anche a Roncadelle, dove vennero rifatte molte costruzioni medievali e abbellite le dimore padronali, che diventarono più ariose, dotate di giardini e di broli e spesso decorate da artistici affreschi. Ciò avvenne nelle maggiori cascine, ma soprattutto nel castello Porcellaga, che assunse l’aspetto di dimora signorile e trasformò il brolo in giardino. Anche la chiesa di S. Bernardino, passata sotto il giuspatronato dei Porcellaga, venne ampliata, dotata di campanile e decorata con l’intervento del pittore Romanino. Il rinascimento locale sembrò coronarsi all’inizio del ‘600 con l’erezione del Savoldo (v.), piccolo gioiello architettonico voluto da Paolo Savoldi, che aveva possedimenti fondiari a sud della strada di Orzinuovi, verso Onzato.

 

Alcuni conduttori seguirono i consigli agronomici di Agostino Gallo, come quello di dare la preferenza al salice per piantumare le cavedagne e per la piantata della vite, e all’ontano per ornare le sponde dei fossi nei prati stabili, in quanto l’erba poteva trarre giovamento dalla sua ombra. Generalmente però, in associazione con la vite, si usava l’acero campestre (oppolo) per la sua lunga durata e per le radici piccole e le foglie minute; era inoltre credenza comune che l’ombra dell’oppolo tenesse lontano i serpenti.

 

Il Seicento fu caratterizzato da una lunga fase depressiva e dalla peste del 1630, che provocarono una temporanea riduzione della popolazione, ma anche un intervento sempre più diretto dei proprietari fondiari nell’attività agricola, che costituiva la maggior fonte di reddito, e nelle usuali attività complementari. Così, accanto ai campi biondeggianti di grani, si vedevano sempre più prati stabili con allevamento brado di bovini; e, lungo le rive dei canali irrigui, cominciarono a sorgere lunghi filari di gelsi come investimento per la bachicoltura (v.), che forniva redditi aggiuntivi sia ai proprietari che ai contadini.      

 

Il cambiamento dinastico avvenuto con il matrimonio tra Chiara Camilla, ultima erede dei Porcellaga, con il marchese Gaspare Giacinto Martinengo Colleoni, comportò anche un rinnovamento del paesaggio urbano. Verso la fine del ‘600 vennero infatti notevolmente ingranditi il castello (divenuto ormai palazzo residenziale) e la chiesa di S. Bernardino, che conservarono la preminenza architettonica sull’intero abitato esistente. Tra i due edifici venne realizzato un viale prospettico alberato, destinato a diventare il cuore del centro urbano locale, e davanti all’ingresso nord del palazzo venne realizzata una piazza delimitata ad ovest dallo stabile della cavallerizza e ad est dalle scuderie; mentre il terreno a sud del palazzo venne trasformato in un grande parco. In quel periodo venne anche ampliato il cascinale di Antezzate per renderlo più funzionale e in grado di accogliere un maggior numero di famiglie contadine e di malghesi.

 

Nel ‘700 si andò diffondendo la coltivazione del mais (comparso nel Bresciano all’inizio del ‘600) che prese gradualmente il posto dei grani primaverili e del secondo raccolto (quarantino). Grazie alla sua convenienza economica, il granoturco (formentù) andò dilagando su gran parte dei terreni, spesso a scapito del prato, ma anche dell’incolto e delle superfici boschive rimaste. Il paesaggio fluviale era ancora caratterizzato dalla massiccia presenza della vegetazione arborea, soprattutto di alberi ad alto fusto e di legno forte (querce, roveri, olmi) insieme a pioppi, ontani e salici, anche se la tendenza ad arginare i corsi d’acqua e a bonificare gli ambienti umidi ne aveva ridotto la presenza, come aveva ridotto anche la disponibilità di pesci, rane e uccelli acquatici.

 

Le aziende agricole erano composte da uno o più fabbricati rurali circondate da terreni caratterizzati dall’alternanza di prati e “aradori”, intervallati da ripe piantumate e solcate da filari di gelsi, spesso accompagnati da viti. Si trattava di un paesaggio ormai tipico, disegnato dal lavoro paziente e tenace dei contadini locali, guidati dai fattori e dai fittavoli.

 

L’Ottocento. Ai primi dell’Ottocento il vecchio ciclo produttivo, imperniato sulla coltivazione promiscua dei cereali e della vite, apparve superato con la completa affermazione della coltura del mais, sia pure affiancata da quella del grano, del lino, della vite o del gelso.

 

I boschi erano ormai scomparsi, tanto che Scipione Guaineri poteva dichiarare in una relazione amministrativa del 1818: “In questo Territorio non esistono Boschi né di ragion comunale, né di privata proprietà”. Vi erano qui e là delle “boschette”, che servivano più che altro per far legna.

 

I campi erano ancora in gran parte delimitati da filari di alberi e da viti generalmente orientate “da mezzogiorno a tramontana” per non adombrare le coltivazioni. A metà ‘800 vennero censiti, su tutto il territorio comunale, 1518 gelsi, che avevano sostituito gran parte delle piante da scalvo delle cavedagne ed erano considerati alberi pregiati. 

 

In concomitanza con un aumento costante della popolazione, si andarono ingrandendo sia il centro urbano che le cascine rurali, destinate a riunire più famiglie, che avevano funzioni diverse in relazione alle necessità dell’economia agraria. La capillare presenza di cascine rappresentava la presenza di varie aziende agricole, più o meno vaste: l’80% del territorio di Roncadelle apparteneva ancora a pochi possidenti, più borghesi che nobili, ma erano aumentati i piccoli proprietari.

 

Le contrade si andavano gradualmente espandendo e avvicinando tra loro per una popolazione che passò da circa 800 abitanti a 1350 nel corso del secolo. Il paesaggio sociale si faceva sempre più articolato; aumentavano infatti i negozianti, gli artigiani e gli operai, soprattutto nella Contrada di Sotto. A gestire lo sviluppo economico e urbanistico locale era ora il Comune, amministrato dai maggiori possidenti locali. Venne realizzato un cimitero a debita distanza dall’abitato nel 1813. Tra la chiesa e il castello Rodolfo Rodolfi fece costruire la sua residenza a corte (poi chiamata “Montecitorio”). E, a modificare il paesaggio della parte più settentrionale del territorio locale, arrivò anche la ferrovia: dal 1853 con i binari della linea ferroviaria Brescia-Milano e, dal 1885, con la linea Brescia-Iseo, che ne lambiva il confine nord.

 

Dalla metà dell’800, anche a causa della crittogama che aveva distrutto quasi completamente i vigneti, andò diminuendo la viticoltura; mentre aumentava la coltivazione del mais, molto utilizzato anche nell’alimentazione umana.

 

Il Novecento. Per quanto riguarda il paesaggio urbano, il nuovo secolo vide la realizzazione del palazzo municipale, eretto nella zona centrale del paese, che oltre agli uffici comunali ospitò le scuole elementari e l’asilo infantile. Nella stessa via andarono sorgendo nuove costruzioni: casa Mombelloni, villa Fantoni, il vecchio Oratorio con casa del curato, ecc. Nel 1933 venne allungata la navata della chiesa parrocchiale; nel 1936 fu costruita la Casa del Fascio. Ai margini del paese sorse la Casa vinicola Enzo Barbi. Le due antiche contrade continuarono a popolarsi e ad ampliarsi: la Contrada di Sotto si urbanizzò anche sul lato sud che, pur facendo parte del Comune di Castelmella, gravitava sui servizi comunali di Roncadelle, tanto che nel 1930 il podestà Paolo Dusi propose una rettifica più razionale dei confini tra i due Comuni, ma senza esito. E la Contrada di Sopra cominciò ad ampliarsi anche sul lato nord.

 

Il territorio agrario, pur restringendosi a causa della crescente urbanizzazione, rimase molto popolato e divenne sempre più produttivo. Alcuni terreni di Villa Nuova vennero destinati alla redditizia tabaccocoltura (v.). Ma la prossimità al capoluogo impose qualche sacrificio territoriale per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali di interesse generale. Nel 1930 la vasta proprietà di Villa Nuova, che si estendeva dal Violino al Fontanone, venne “tagliata” in due dal nuovo tratto autostradale Brescia-Bergamo che, attraversando la parte settentrionale del territorio locale, ne modificò il paesaggio e tracciò una linea di demarcazione nello sviluppo urbano successivo.

 

Nel 1936 viveva ancora in cascina più di un terzo degli abitanti di Roncadelle (925 su 2.600) e la produzione cerealicola andava aumentando; stimolate dalla “battaglia del grano”, nel 1943 le aziende agricole locali arrivarono a produrre 8.697 quintali di grano e 4.015 quintali di mais.

 

Le maggiori trasformazioni sono state effettuate nella seconda metà del ‘900, quando la popolazione locale è passata dai 3.500 abitanti del 1960 ai 7.600 del 2001 e le abitazioni da 729 sono diventate 2.879. Il centro urbano di Roncadelle ha gradualmente occupato tutto il triangolo di territorio compreso tra il Mella, il Mandolossa e l’autostrada A4 (cancellando a volte interessanti strutture del tardo Medioevo, com’è accaduto per la cascina Turlini), mentre il resto del territorio ad est del Mandolossa è stato via via destinato agli insediamenti industriali, commerciali e artigianali.

 

Il territorio urbanizzato è stato intervallato da aree di verde pubblico (v.) con diverse essenze arboree; alcune vie sono state fiancheggiate da filari di alberi (non sempre autoctoni) e varie abitazioni si sono dotate di giardini ed orti. Nell’ultimo secolo la superficie agricola utilizzata è scesa da 833 a 536 ettari. I campi e le strade rurali sono ancora in gran parte delimitati da alberi, anche se i vecchi filari di robinie, di platani e di gelsi risultano per lo più abbandonati o distrutti.

 

È cambiato anche il paesaggio sociale, con una grande articolazione di professioni, un maggior benessere, una diffusa crescita culturale e coscienza ambientale; il che lascia prevedere un paesaggio urbanistico e naturale sempre più vivibile ed armonico.

 

La tutela. Il paesaggio rappresenta una indubbia ricchezza, sia come risorsa estetica e culturale, sia come elemento chiave dell’identità e del benessere della popolazione; e la sua tutela dev’essere un obiettivo fondamentale della comunità.

 

L’idea di tutela del paesaggio è nata all’inizio del Novecento come difesa delle “bellezze naturali” per estendersi poi alla tutela dei beni artistici e monumentali.

 

Per il suo interesse storico-artistico, il castello di Roncadelle venne sottoposto nel 1912 al vincolo previsto dalla legge 20 giugno 1909 n. 364 e poi, nel 1941, alle disposizioni della legge Bottai del 1° giugno 1939 n. 1089 per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico; mentre il parco del castello venne sottoposto a vincolo nel 1960 ai sensi della legge 29 giugno 1939 n. 1497 per la protezione delle bellezze naturali e panoramiche, in quanto “con la sua vegetazione arborea formata da alberi secolari e dalla distesa dei prati costituisce una nota verde di non comune bellezza”. In tale occasione vennero sottoposti a vincolo anche i mappali n. 347, 231, 234, 229, 378, 379, 595 (compresi tra la via P. Cismondi e la Strada Statale n. 235), a cui fu attribuita la funzione di “cono ottico” per consentire di ammirare la struttura del castello.

 

Dopo la legge 19 novembre 1968 n. 1187, che introdusse il P.R.G. come strumento cardine della disciplina urbanistica nell’osservanza dei vincoli “a carattere storico, ambientale, paesistico”, arrivò la legge Galasso dell’8 agosto 1985 n. 431 che, in attuazione dell’art. 9 della Costituzione, impose “una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità” con una riconsiderazione del territorio nel suo valore storico-culturale. Il paesaggio è infatti un patrimonio culturale, che riflette la storia, le tradizioni e l’evoluzione delle società che lo hanno modellato nel tempo.

 

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio emanato nel 2004 ha abrogato le normative precedenti e recepito le Direttive comunitarie (come la Convenzione Europea del Paesaggio del 19 luglio 2000). Qualsiasi intervento in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico deve essere autorizzata dalla Regione o dal Comune delegato con il parere favorevole delle competenti Soprintendenze di settore.

 

Dopo lo sviluppo smodato di Roncadelle negli ultimi decenni del ‘900, che ha portato il consumo di suolo ad oltre un terzo del territorio locale, da alcuni anni l’Amministrazione comunale ha adottato le nuove strategie di sviluppo sostenibile, quali la conservazione del territorio (con il riuso e la riqualificazione), la transizione energetica verso fonti rinnovabili, la salvaguardia del paesaggio storico e ambientale, la mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, ecc., adottando le misure necessarie affinché il paesaggio locale possa essere fonte di identità, bellezza e salute per la comunità presente e futura.

 

 

 

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