LONGOBARDI

Lunedì, 23 Giugno, 2025 - 16:15
Ufficio: 
Cultura e Sport
Data pubblicazione: 
Lunedì, 23 Giugno, 2025
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Il popolo germanico dei Winnili o Longobardi, proveniente dal nord Europa, invase il Friuli nella primavera del 568 sotto la guida di Alboino, insieme ad altri popoli. Erano forse 200.000 persone in tutto (con meno di 40.000 combattenti), che in pochi anni occuparono gran parte delle regioni interne dell’Italia, rompendo l’unità politica della penisola e costituendovi 36 ducati.

Nel Bresciano si stabilirono oltre 5.000 invasori, di cui un migliaio nella città di Brescia (che all’epoca aveva forse 5.000 abitanti) e almeno 2.000, in perenne assetto di guerra, nella “arimannia” (distretto militare) tra il Mella e il Chiese.

In gran parte ariani o pagani, i Longobardi si convertirono poi alla religione cattolica e, nei due secoli di loro dominio, sia per rivalità interne che per l’opposizione dei Bizantini e del Papa, non riuscirono a riunificare l’Italia, che rimarrà divisa per 13 secoli.

 

Dopo la lunga e sanguinosa guerra tra Goti e Bizantini (535-553), che comportò massacri, distruzioni, carestie e pestilenze nel territorio bresciano, con l’arrivo dei Longobardi nel 569 Brescia divenne la sede di uno dei più importanti ducati e sul suo vasto territorio, che spaziava dalla Valtellina al Po e dall’Oglio a tutto il lago di Garda, si stabilirono molti nobili di quel popolo. Le terre demaniali e quelle dei maggiori proprietari vennero confiscate dai duchi e dai nobili longobardi e molte altre terre vennero accaparrate dai nuovi padroni, che si sostituirono ai vecchi proprietari.

Il decadimento dell’agricoltura locale, già in piena crisi, divenne ancora più evidente. La ripugnanza degli invasori verso il lavoro agricolo e la loro preferenza per la caccia (v.) e l’allevamento del bestiame comportò sia un costante sfruttamento dei lavoratori della campagna, ai quali veniva requisito un terzo dei prodotti agricoli, sia l’abbandono di molti campi coltivati. La parte incolta del territorio, ormai corrispondente a circa metà dell’antico agro centuriato, con i suoi boschi, le lame, i corsi d’acqua, divenne di proprietà del fisco regio o ducale.

Per un lungo periodo la vita economica si andò degradando e le condizioni di molti contadini, liberi o servi che fossero, si immiserirono. Le coltivazioni erano limitate ai cereali inferiori: miglio, panico, spelta, sorgo, orzo, segale. Le frequenti esondazioni dei corsi d’acqua, abbandonati a se stessi, impaludarono i terreni meno permeabili. Ma quel paesaggio (v.), fitto di boschi e paludi, non rappresentava più una minaccia per gli uomini, che ristabilirono anzi con esso un rapporto positivo, anche per il diffondersi di abitudini mentali proprie del mondo germanico. Il bosco forniva legna da ardere e legname, selvaggina, frutti selvatici e si prestava all’allevamento brado. I larghi spazi acquitrinosi erano adatti per la caccia, mentre il fiume forniva pesce e abbondava di pietre e sabbia.

Il quadro complessivo che emerge dall’editto di Rotari (643), pur accennando all’attività di medici e di muratori (magistri comacini), è quello di una società rurale organizzata sulla base di pochi campi coltivati e di larghe estensioni di incolti e di boschi.

I boschi di querce, che offrivano ghiande in quantità, si prestavano in modo particolare all’allevamento suino, che era di grande importanza nell’economia e nell’alimentazione del periodo. L’editto di Rotari evidenzia che una delle categorie lavorative più tutelate era quella dei porcai: chi avesse ucciso un magister porcarius, che aveva normalmente alle sue dipendenze due o tre aiutanti, doveva infatti essere condannato al pagamento di una multa di 50 soldi d’oro, pari solo a quella stabilita per l’artigiano specializzato, mentre l’uccisione di un contadino o di un altro pastore (pecoraio, capraio, bovaro) comportava un risarcimento di 20 soldi. Un querceto o comunque un bosco utile al pascolo dei suini era considerato terreno produttivo come il campo coltivato o la vigna, mentre la boscaglia che forniva solo legna e sterpame era detta silva infructuosa.

L’agricoltura era più povera e meno intensiva di quella romana, ma la grande azienda longobarda continuò a ricalcare quella romana, con una curtis (v.) padronale non molto estesa, nella quale trovavano lavoro e alloggio i servi, attorniata da vari mansi o poderi, affidati a massari, che corrispondevano una quota del prodotto al proprietario.

A Roncadelle non sono stati ritrovati reperti di insediamenti longobardi, rintracciati invece in varie località vicine (Gussago, Castelmella, Flero, ecc.), a meno che non risalisse a quel periodo la tomba rinvenuta poco dopo la seconda guerra mondiale nella tenuta Andreoli a nord-ovest del castello contenente resti di un guerriero piuttosto alto, di cui però non è rimasta traccia.

Il territorio di Roncadelle, sia per la vicinanza alla città che per la sua destinazione prevalentemente boschiva, divenne proprietà ducale forse già all’inizio dell’occupazione longobarda. Successivamente (forse dal 584) esso venne attribuito al fisco regio. Si può quindi ritenere che sia stato utilizzato sia come terreno di caccia che per l’approvvigionamento del palazzo ducale (curia ducis) costruito appena fuori dalle mura occidentali della città. Secondo il Guerrini, alla metà del sec. VIII il territorio di Roncadelle “formava già una curtis, cioè un centro agricolo importante di proprietà della corona longobarda, un latifondo in gran parte coltivato a prati e vigne, ma nel quale dovevano restare ancora in parte selve e boschi per le cacce reali e della corte regia, oltre che per provvedere legna al palazzolo ducale di Brescia”.

Quando Astolfo, duca di Brescia, divenne re nel 749, la curtis di Roncadelle passò al duca Desiderio insieme ad altre proprietà ducali. Intorno al 753, forse per assecondare la vocazione monacale della figlia Anselperga, Desiderio e la moglie Ansa diedero vita al piccolo cenobio femminile dei Ss. Pietro e Michele ai piedi del colle Cidneo, su un’area demaniale donata da re Astolfo. Un progetto destinato ad ampliarsi. Infatti, divenuto re dei Longobardi nel marzo 757, Desiderio dedicò il monastero al Salvatore e lo arricchì di vaste donazioni fondiarie, poste non solo sul territorio bresciano, per garantirgli l’indipendenza economica ed un esteso potere territoriale.

Tra le proprietà donate al monastero di S. Salvatore nei pressi di Brescia, il riferimento più prossimo al nome e alla dislocazione di Roncadelle è “Runca, ovvero Runco Novo”, che appare nell’atto datato 4 ottobre 760, con il quale re Desiderio e suo figlio Adelchi (associato al trono) donarono al monastero 50 iugeri di terreno (pari a 120 piò, secondo la misura medievale) e 50 di bosco situati presso il Mella:

… Et cedimus in suprascripto monasterium terram iuges quinquaginta de brada, curte ducales, que est prope fluvio Mella, loco qui dicitur Runca, quod est Runco novo, et de silva que secum ipsa terra insimul tenet cedimus ibi iuges alias quinquaginta, ac damus ibi Gisolum et Radolum de Cuntignaca, qui porcos ipsius monasterii pascere debeant, cum rebus et familiis suis, et cedimus ibi Deosdedolum de Letrino, qui sit pecorarius, et donamus in ibi Ansteum de Quintiano, qui vacas ipsius monasterii pascat, cum casa et familia sua”.

Insieme ai terreni, vennero quindi ceduti al monastero anche quattro provetti pastori: Gisolo e Radolo di Contegnaga (Flero), che dovevano pascolare i maiali del monastero e che venivano donati insieme alle loro cose e alle loro famiglie; il pecoraio Deodatolo da Lodrino; il vaccaro Ansteo da Quinzano con la sua casa e la sua famiglia. Vi si deduce che i servi (contadini o pastori che fossero) venivano ceduti normalmente come pertinenze dei terreni e che l’attività silvo-pastorale era ancora preminente nell’economia della zona lungo il Mella (v.). Risulta significativo anche l’ordine di precedenza e il numero di addetti ai tre tipi di animali da pascolare: prima i maiali, poi le pecore, infine i bovini.

Nel 758 il re Desiderio fondò anche il monastero maschile di Leno facendosi mandare dal bresciano Petronace, che aveva ricostruito l’abbazia di Montecassino, dodici monaci benedettini. I due monasteri bresciani, dotati di grandi estensioni di terreno, iniziarono l’opera di bonifica del territorio, fondarono nuove attività caritative e introdussero innovazioni culturali e cultuali.  

La politica espansionista, ostinatamente perseguita da Desiderio (sulle orme del suo predecessore Astolfo) per unificare il territorio italiano, si scontrò con l’opposizione del papa e dei Franchi ed ebbe come conseguenza la fine del regno longobardo. Nel 774, abbandonato da molti duchi, Desiderio dovette rinunciare al trono e Carlo Magno (dopo aver sposato e ripudiato la figlia di Desiderio, che si ritirò nel monastero di Brescia) poté proclamarsi “re dei Franchi e dei Longobardi”.

Il territorio bresciano rimase comunque molto segnato dalla cultura longobarda. Oltre ai propri caratteri genetici, i Longobardi ci hanno lasciato come eredità un temperamento fiero, la passione per la caccia, nonché alcune centinaia di parole derivate dalla loro lingua, come aizzare, albergo, arraffare, azzannare, baldo, banco, bara, campione, faida, fante, graffio, greppia, guancia, guanto, guardia, guerra, manigoldo, maniscalco, milza, nappa, nastro, nocca, panca, ricco, sala, scaffale, schernire, scherzo, sgherro, sguattero, spanna, spiedo, staffa, stamberga, sterzo, stinco, trappola, zaino, zazzera, zolla, ecc. E molte sono rimaste anche nel dialetto (v.) bresciano, come barba (zio), barèla (asse di trasporto), bizigà (lavoricchiare), bréda (campo delimitato), burìda (aggressione verbale), fodreghèta (federa), ghéda (grembo), ghidàs (padrino), magù (stomaco), sbaröfà (litigare), scàgna (sedia), schincà (rompere), scosàl (grembiule), scür (imposte delle finestre), spisigà (pizzicare), stöch (stucco), stosà (ammaccare), stràch (stanco), tarnegà (togliere il fiato), vardà (guardare), ecc.

Molti sono anche i nomi di persona e di luogo trasmessi dai Longobardi. Per limitarci alla toponomastica bresciana, basti citare Rodengo, Berlingo, Padenghe, Farfengo, Ghedi, Gardone, Sale M., Corna Blacca e le tante località “breda” sparse sul territorio.