EPIDEMIE

Lunedì, 28 Luglio, 2025 - 11:15
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Lunedì, 28 Luglio, 2025
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A peste, fame et bello, libera nos, Domine” era un’invocazione ricorrente nei secoli passati come unico antidoto ai maggiori flagelli che funestavano la vita della popolazione. Ricorrenti erano infatti, oltre alle carestie (v.) e alle guerre (v.), le pestilenze ed altre epidemie. Per vari secoli non si fece distinzione tra la peste, che dominò incontrastata dal XIV al XVII secolo, ed epidemie di altro genere, come il tifo e il vaiolo, che infierirono sulla popolazione soprattutto nel periodo moderno, ed il colera, che comparve frequentemente nel XIX secolo. Alcune malattie infettive sono derivate probabilmente dalla convivenza con animali da allevamento (morbillo, vaiolo, influenze, pertosse), altre sono state favorite dai crescenti contatti tra popoli diversi (globalizzazione microbica). Alcune sono scomparse senza spiegazioni, altre per merito dei progressi medico-scientifici e delle misure di prevenzione e contenimento, ma il rischio di nuove epidemie pende ancora, come una spada di Damocle, sulle nostre esistenze.

Le prime epidemie segnalate dagli storici sul territorio bresciano sono quelle del 194 d.C., del 462, del 675, del 766, tutte definite pestilenze o pesti. Cominciò a diffondersi in quei secoli la devozione (v.) per san Sebastiano (soldato romano martire del III secolo) come difesa dalle pestilenze perché martirizzato con dardi, che i fedeli assimilavano alle piaghe della peste. Poi, per alcuni secoli la peste scomparve dall’Europa. Vi sono accenni a pestilenze nel 1242, 1243, 1285. Ma è dal XIV secolo che abbiamo informazioni più precise sulla frequenza e consistenza delle epidemie e pestilenze che hanno colpito la popolazione bresciana.

Dopo il lungo assedio a Brescia del 1311 da parte dell’imperatore Arrigo VII, una pestilenza infierì sulla città e dintorni provocando migliaia di morti. Vera peste fu però quella arrivata pochi decenni dopo, nel 1348-49, la cosiddetta “peste nera” (resa celebre dal Boccaccio), che giunse dall’Asia e devastò l’Europa riducendone la popolazione di circa un terzo. Brescia ne fu sicuramente colpita ma non sono state tramandate notizie in merito. Dai documenti rimasti si deduce che scomparvero intere famiglie e che i superstiti ebbero però nuove opportunità potendo disporre di maggiori risorse economiche, come capitò ai Porcellaga (v.), che avevano acquistato diverse proprietà a Roncadelle, poi ereditate da Pecino, unico superstite della famiglia, da cui derivarono tre storici rami dinastici.

Dopo la pandemia del 1348-49, la peste bubbonica divenne endemica per alcuni secoli. E da allora vennero prese rigide misure di contenimento in caso di sospette malattie contagiose. I Visconti favorirono l’immigrazione di ceti produttivi nel loro ducato limitando l’afflusso degli improduttivi, considerati possibili veicoli di epidemie; mentre Venezia cominciò ad adottare la “quarantena” per le navi provenienti da località infette (1374) e nel 1423 destinò un’isola della laguna a lazzaretto.

Nel secolo XV diverse pestilenze colpirono il territorio bresciano. Nel 1427 un’epidemia spinse il Provveditore veneto Faustino Dandolo a identificare, nei dintorni della città, un luogo adatto per accogliere e curare le persone colpite dal morbo; e venne quindi destinato a tale scopo il monastero suburbano di S. Bartolomeo, che divenne il più importante lazzaretto di Brescia.

Vennero segnalati focolai di peste in città e dintorni nel 1428-29 (con 3.000 morti), nel 1432 e nell’autunno del 1438 (assedio del Piccinino, che partì da Roncadelle). Nella primavera del 1439 “lo morbo era grandissimo in Bressa” accompagnato da una grave carestia: “ogni giorno ne moreva 45 et 50” ci informa Cristoforo Soldo. Gli abitanti di Brescia, a causa dell’assedio, della fame e della pestilenza, da 30.000 si ridussero a 15.000.

Un’altra epidemia scoppiò violentissima nell’estate 1450, in occasione delle feste pubbliche organizzate per la canonizzazione di Bernardino da Siena (v.). Seguirono altre epidemie nel 1457 e nel 1466. Ma la più famosa e terribile di quel secolo fu quella del 1478-79, chiamata “mal del marzùch”, perché si manifestava con forti dolori alla testa, seguiti da febbre altissima, e portava in pochi giorni alla morte. Si è calcolato che nel Bresciano causò la morte di circa 30.000 persone, pari al 15% della popolazione. La pestilenza venne descritta da Giacomo Melga con particolari raccapriccianti. Brescia era diventata una città spettrale: chi poteva si trasferiva in campagna; pochi uscivano di casa per paura del contagio; le strade si andarono riempiendo di cadaveri. Molti si accampavano all’aperto: le Chiusure (v.) pullulavano di tende e baracche, come se la città fosse in stato d’assedio. È presumibile che il castello (v.) di Roncadelle sia servito da rifugio ad alcuni Porcellaga. Mancando becchini e seppellitori, capitava di dover provvedere da soli all’inumazione dei propri congiunti; numerosi cadaveri restavano nelle case insepolti. Si trovarono 24 uomini per svolgere, dietro lauto compenso, l’ufficio di nettazzini (i “monatti” nostrani) in città: essi, tramite carrette speciali precedute dal suono di un campanello, portavano via dalle case e dalle strade i morti per seppellirli in fosse comuni e prelevavano i moribondi da portare al lazzaretto. Le botteghe erano chiuse, come anche le chiese; le campane erano mute. I nettazzini che morivano venivano prontamente rimpiazzati da altri soggetti, avidi di facili guadagni e ruberie: spesso, infatti, entravano nelle case disabitate saccheggiandole impunemente. Il podestà veneto era scappato, i reggitori del Comune si limitavano a radunarsi una volta alla settimana in un prato presso la Mandolossa, a Roncadelle o a Provaglio d’Iseo per deliberare i provvedimenti necessari. I “deputati ad pestem” emanavano ordini severissimi, organizzavano i servizi necessari e proibivano le manifestazioni pubbliche (anche religiose). Alcuni di loro ci rimisero la vita, come capitò probabilmente a Ruggiero Porcellaga, proprietario del castello di Roncadelle, che morì nell’aprile 1479, colpito dal male che si era incaricato di combattere. La pestilenza, dopo aver infierito sulla città per nove lunghi mesi (da marzo a novembre 1478), si concluse solo nel luglio 1479.

Casi di epidemie si ripresentarono negli anni successivi.

Non sapendo come difendersi da tali epidemie e pestilenze, si diffuse allora tra la popolazione il culto di san Rocco (pellegrino francese vissuto tra il 1275 e il 1327) invocato soprattutto contro le malattie contagiose, perché era riuscito a guarire dalla peste. La sua immagine, raffigurata con mantellina, bastone e conchiglia da pellegrino mentre indica un bubbone sanguinante sulla propria coscia, comparve in molte chiese e santelle. A Roncadelle san Rocco e san Sebastiano vennero rappresentati sulla pala dell’altare maggiore della parrocchiale (v.) insieme a S. Bernardino, prima da un affresco del Romanino (v.), poi da una tela di Francesco Paglia. Nella parrocchia locale, san Rocco venne considerato da allora una sorta di vice-patrono. Nel ‘600 gli fu dedicata da don Ludovico Porcellaga una chiesetta nella frazione rurale di Villa Nuova (v.) con una bella tela del 1643 (ora nella parrocchiale) che lo raffigura insieme a S. Sebastiano; e nella parrocchiale è conservata anche una bella statua lignea di san Rocco (eseguita da G. Sughi nel 1836) utilizzata in passato anche per processioni.

Nel 1494-95 si diffuse il cosiddetto “mal franzoso” (sifilide), portato dalle truppe di Carlo VIII, che causò altre vittime in ogni ceto sociale e assunse in pochi anni connotati pandemici. L’ospedale degli incurabili a Brescia è stato eretto nel 1521 soprattutto per i sifilitici.

La peste continuò a serpeggiare nei primi anni del ‘500 e riprese vigore nel 1512, dopo il terribile “sacco” di Brescia, quando mieté numerose vittime in città e nei territori circostanti, anche a causa della “liberazione” dei ricoverati nel lazzaretto di S. Bartolomeo (usati come arma biologica). La scarsità d’acqua e l’inquinamento da peste causarono anche una gravissima epidemia di dissenteria, a fronteggiare la quale, come rilevò Marin Sanudo, non si trovavano medici “per el sospeto del morbo, né barbieri che voglia salassar […] né medexine”. L’epidemia servì comunque a migliorare in seguito l’assistenza medica e farmaceutica. Il morbo si diffuse di nuovo nel periodo 1521-26. Nell’estate del 1528 una pestilenza portata dai lanzichenecchi di Brunswich (truppe mercenarie tedesche) colpì Torbole Casaglia ed altri paesi, oltre che in città.

Dopo il Concilio di Trento, le parrocchie cominciarono a registrare sia i battesimi che le sepolture. E a volte venivano indicate anche le cause di morte. Ma le parole usate risultano spesso generiche: l’indicazione più frequente è “febbre”, accompagnata spesso da aggettivi (maligna, convulsiva, catarrale, lenta, gastrica, naturale, perniciosa, verminosa, nervosa, apoplettica, acuta, consuntiva, infiammatoria, ecc.), che non aiutano molto l’identificazione della vera malattia, dovuta spesso a infezioni di agenti patogeni, alla precarietà delle condizioni igieniche o a malnutrizione.

Nel 1570-71 un’epidemia di “febbri maligne”, che in pochi giorni portava alla morte, ridusse la popolazione di Roncadelle da oltre 700 abitanti a soli 560. E pochi anni dopo, nel 1576-77, la cosiddetta “peste di San Carlo” colpì la popolazione bresciana con una violenza inaudita causando oltre 20.000 morti, di cui 5.000 nella sola città. Francesco Robacciolo, medico chirurgo, ne descrisse il decorso: febbri iniziali, “mal di testa grande”, manifestazioni cutanee tipo petecchie, vomito, profonda astenia e decesso per collasso cardiorespiratorio. Il morbo colpiva soprattutto i bambini e le donne gravide. Diversi medici, “vedendo di non giovare”, si rifugiarono fuori Brescia, ma alcuni rimasero per fare il loro dovere. Si ripeterono le scene di un secolo prima. Il lazzaretto di S. Bartolomeo arrivò ad ospitare fino a duemila persone. I cadaveri venivano ammonticchiati e poi affossati nei dintorni della città, anche presso il Mella. “Era tanto il fetore cadaverico che ammorbava la zona, che si spandeva in alto fino al Castello causando la morte degli uccelli”. L’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo mandò a Brescia il frate cappuccino Paolo Bellintani di Volciano, che con energia riorganizzò la gestione dell’epidemia e prestò assistenza agli ammalati e moribondi guadagnandosi la gratitudine dei cittadini e delle autorità locali. Per mesi la città e i paesi apparvero desolati, finché l’epidemia si spense. Anche Roncadelle ne fu colpita: pur essendo scomparso il registro delle sepolture di quel periodo, lo si può dedurre dal ridotto numero dei nati (solo 10 nel 1576, quando la media annua era intorno ai 30 nati).

Negli anni successivi vi fu un vivace recupero demografico, come avviene sempre dopo una crisi epidemica: a Roncadelle si raggiunsero punte eccezionali di nascite (48 all’anno) nel 1585 e nel 1587. Questo incremento demografico, comune a gran parte dell’Italia, portò ben presto, dopo una serie di cattivi raccolti di grano, ad una gravissima carestia negli anni 1591-92, accompagnata da una epidemia di tifo petecchiale. Il numero dei nati a Roncadelle in quel periodo manifesta un’altra crisi demografica, risultando 16 nel 1591 e soltanto 12 nel 1592. Era l’inizio di un lungo periodo critico, caratterizzato da un precario equilibrio tra popolazione e risorse, perturbato da periodiche crisi di sussistenza. Le carestie in quel periodo erano spesso accompagnate da epidemie di tifo o di altro genere, a cui la medicina non sapeva fornire risposte adeguate. Significativo, a questo proposito, lo sfogo del roncadellese Luigi Guaineri (1554-1625), che sul suo “Diario di caccia” annotava nel 1623:

 

“…Ma quel che più importa infermità infinite, con morte di infiniti et questo male generalissimo per tutt’Italia, siche quasi pizicava alquanto di male contagioso, siche non fu n’arte ne mercantia che più fruttasse che l’arte della Medecina a tal che li medici per ignoranti che fussero (come che pochi de boni ne sijno) guadagnavano all’ingrosso et tutti diventorno ricchi, come che di cento che ne medicavano 99 morivano et uno salvava la pelle et pure da tutti erano indiferentemente pagatj. L’altissimo Iddio ci diffenda tutti da questi publichi homicidiali li quali in vece d’esser castigatj (come meritarìano) vengono da tutti pagatj et honorati”.

 

Ma la peste più famosa, magistralmente descritta dal Manzoni nei “Promessi sposi” e nella “Storia della colonna infame”, rimane quella del 1630, scoppiata in seguito al passaggio dei lanzichenecchi per la guerra di successione di Mantova. Preceduta da una penuria di cereali nel 1628-29, con conseguenti proteste e tumulti in città contro i fornai e resse turbolente ai magazzini del Granarolo, la peste colpì Palazzolo nel febbraio-marzo 1630, poi altri paesi, nonostante fossero state adottate misure di sicurezza (compresi i restelli agli accessi dei paesi), finché il 27 aprile si manifestò in città e imperversò per tutta l’estate. La città si spopolò, uffici pubblici e botteghe vennero chiusi. I nettazzini, che vestivano un camice verde con una croce bianca ed erano muniti di un campanello per segnalare il loro passaggio, venivano sostituiti (man mano che morivano o si ammalavano) da galeotti tolti dalle prigioni. Molti religiosi e molti medici morirono vittime della loro abnegazione. In città si contarono 11.000 morti (di cui 4.293 nel lazzaretto), una parte della popolazione sfollò nei paesi vicini; e nel gennaio 1631 a Brescia si contarono solo 13.227 abitanti. Anche Roncadelle risentì certamente della tragica epidemia, anche se, in mancanza del registro parrocchiale delle sepolture di quel periodo, non è possibile quantificarne la mortalità. L’unico dato, ma significativo, è il basso numero di nascite registrate nel 1630: solo 13.

L’esperienza del contagio, mentre in alcuni rafforzò la fede religiosa, in altri scatenò i peggiori istinti, come riferiscono i documenti dell’epoca. In quel periodo dilagò la delinquenza e la licenziosità dei costumi e anche Roncadelle dovette subire gli arbitrii di Camilla Fenaroli, nonché i delitti e le prepotenze di suo figlio Pietro Aurelio Porcellaga, che elesse il castello locale a rifugio per sé, per i suoi büli e per alcuni criminali della zona.

La peste scomparve senza che se ne fosse capita la natura e le modalità di trasmissione. Solo alla fine dell’Ottocento si scoprì che era provocata da un batterio parassita nelle pulci dei roditori e dei ratti. La scomparsa della peste e l’attenuazione delle malattie infettive consentirono da allora un lento e costante incremento della popolazione locale, ma non scomparvero certo le epidemie. Il tifo petecchiale o esantematico provocò vittime a Roncadelle nel 1591-92, nel 1649-51e nel 1693, quando si verificò una delle più alte “punte” di mortalità a Roncadelle con 53 sepolture. Essendo trasmesso dai pidocchi, il tifo petecchiale scoppiava più frequentemente nei mesi invernali, quando le persone, oltre a restare maggiormente al chiuso, si lavavano meno e si coprivano abbondantemente. In genere si diffondeva nei periodi di carestia, quando gli organismi denutriti erano più deboli. La sua letalità si aggirava mediamente intorno al 20% dei colpiti. Coloro che resistevano alle epidemie di tifo ne divenivano immuni.

Una delle epidemie più diffuse e temute era il vaiolo, che in alcune zone del bresciano si manifestò nel ‘600 e si diffuse particolarmente nell’Ottocento. A Roncadelle venne registrato il caso mortale di un neonato nel giugno 1786. Il vaiolo, causato da un virus trasmesso attraverso minute gocce di escreato emesse dalla bocca o dal naso, si manifestava con eruzioni cutanee diffuse e sfiguranti; aveva un indice di letalità intorno al 30% e i sopravvissuti ne diventavano immuni, per cui tendeva a colpire le classi di età più giovani. La vaccinazione antivaiolosa fu avviata a Brescia nei primi anni dell’Ottocento, grazie all’impegno del dott. Luigi Sacco, ma passarono diversi decenni prima che il vaiolo venisse debellato.

La restaurazione austriaca fu segnata all’inizio dalla crisi demografica del 1815-18 determinata da carestie e da una grava epidemia tifoidea, facilitate dal ritorno a casa o dallo sbandamento delle soldatesche al termine delle guerre (v.) napoleoniche.

Un’altra malattia epidemica fu il colera, che imperversò in alcuni periodi dell’Ottocento. A Roncadelle giunse nel giugno 1836, forse portato da un lavoratore trentino (morto il 16 giugno) e l’epidemia durò fino al 23 agosto, provocando in poco più di due mesi 35 decessi (19 maschi e 16 femmine, di tutte le età) pari al 4% della popolazione locale. Ciò significa che circa il 9% degli abitanti ne era rimasto colpito. Il colera era causato dal vibrione trasmesso nell’organismo umano per via orale, generalmente mediante l’ingestione di acqua o di sostanze infettate, e si sviluppava in organismi debilitati, generalmente anziani; la sua letalità era piuttosto alta (intorno al 50% dei colpiti).

L’epidemia, che in città causò la morte di circa 1.700 abitanti (su 35.000), mise in evidenza il generoso impegno caritatevole di molte persone, tra cui don Ludovico Pavoni, che accolse molti orfani nell’Istituto da lui fondato, e Paolina di Rosa, futura fondatrice delle Ancelle della Carità col nome di suor Maria Crocifissa, che insieme all’amica Gabriella Bornati volle assistere le donne colerose rinchiuse in ospedale. Ma molta gente, assistendo all’impotenza della medicina di fronte all’epidemia, tacciò i medici di essere “ministri prezzolati d’un Governo che aveva decretato la distruzione di una parte dei suoi sudditi”, manifestando così anche una certa avversione al dominio austriaco.

Un’altra epidemia di colera si diffuse nell’estate del 1855 con nuove sofferenze e mortalità, soprattutto nelle zone urbane con scarse condizioni igieniche. Si cercò di far fronte all’emergenza con misure sanitarie, ma la mancanza di conoscenze sulle cause della malattia e sulla sua trasmissione resero difficile il contenimento del contagio, ricordato anche da Ippolito Nievo nelle sue “Confessioni di un italiano”. Quell’anno a Roncadelle si verificò la più grave crisi di mortalità di tutto il secolo, con 82 decessi. La causa principale fu la ricomparsa del colera che, in un solo mese (dal 14 luglio al 13 agosto) causò 34 morti. Come se non bastasse, in novembre scoppiò un’epidemia di scarlattina, che causò altri 10 morti (9 femmine e 1 maschio) tutti sotto i sei anni. Si accompagnarono infatti alle epidemie di colera e vaiolo le più diverse malattie infettive, come gastroenteriti infantili, tifo, tubercolosi. Per i nuovi casi di colera che si ripresentavano, nel 1873 la giunta municipale di Roncadelle stabilì che la cascina Savoldo (v.) venisse adibita a lazzaretto locale, come già avvenuto in passato.

Nei decenni successivi il colera andò poi scomparendo, grazie alle vaccinazioni e a controlli igienici più severi, soprattutto sull’acqua dei pozzi. La causa principale dell’epidemia di febbri tifoidi, che si diffuse a Roncadelle verso la fine dell’Ottocento (28 casi nel 1888, quasi tutti nella Contrada di Sopra), venne attribuita all’acqua inquinata. E l’ufficiale sanitario, dr. Rinaldo Amighini, oltre a prestare adeguata assistenza agli ammalati, fece realizzare tre pozzi pubblici con tubolari in ferro. Anche la cascina di S. Giulia aveva bisogno di un pozzo tubolare essendo l’acqua dei pozzi comuni fortemente inquinata; e il Consiglio comunale dovette richiamare più volte la proprietaria Clara Franzini a non far depositare concimi in prossimità della strada lambente la cascina, perché inquinavano le acque della zona.

Nel 1880-84 vennero isolati i bacilli del tifo, della tubercolosi (chiamata anche “peste bianca”), del colera e della difterite, come primo passo necessario per la cura e la prevenzione di quelle malattie. E nel 1888 venne introdotto l’obbligo della vaccinazione antivaiolosa per tutti i nuovi nati, che rimasero marchiati con la caratteristica aröla sul braccio.

In quel periodo si diffuse la pellagra che, pur non essendo contagiosa, assunse carattere epidemico, causando vittime ogni anno, tanto che il prefetto di Brescia nel 1905 dichiarò il Comune di Roncadelle “affetto da pellagra”. La principale causa della malattia era la povertà, che limitava l’alimentazione al consumo di mais (polenta), carente di niacina (vitamina B3). La pellagra si manifestava con dermatite, diarrea e demenza e, in alcuni casi, portava alla morte.

Scomparse le grandi epidemie, soprattutto per le migliorate condizioni igieniche e sanitarie, si diffusero diverse influenze. Fra queste vanno ricordate la “spagnola” del 1918, la cui rapida diffusione fu favorita dai movimenti delle truppe durante la guerra, dalla malnutrizione, dalla scarsa igiene e, forse, da un’anomalia climatica. In Italia ha causato almeno 400.000 vittime. A Roncadelle provocò circa 30 morti (calcolati in base alla media dei decessi nel periodo). La medicina, nonostante i progressi in campo epidemiologico, di fronte alla “spagnola” si dimostrò impotente, perché derivava da nuovi ceppi di virus ancora sconosciuti. Alcuni medici consigliavano come antidoto di bere vino e fumare tabacco. Questa pandemia costrinse però le organizzazioni sanitarie a considerare con maggiore attenzione le influenze, che erano state sempre sottovalutate. Frequenti erano infatti le epidemie influenzali (o grippe), malattie infettive respiratorie acute, ben conosciute almeno dal 1580, ma tradizionalmente ritenute benigne, a causa della scarsa letalità.

Nel 1939 venne resa obbligatoria la vaccinazione antidifterica.

Nel secondo dopoguerra ci furono altre pandemie influenzali, come l’asiatica del 1957-58 e la Hong Kong del 1968-69, ma lasciarono il segno soprattutto i casi di poliomielite, che colpivano in particolare i bambini sotto i 5 anni, e altre malattie infettive, come il morbillo, la scarlattina, l’epatite B. Nel 1966 fu resa obbligatoria la vaccinazione antipolio, nel 1968 l’antitetanica, nel 1991 l’antiepatite. Sembrava ormai di poter ritenere sconfitte le epidemie contagiose, grazie alla diffusione degli antibiotici contro le infezioni batteriche e grazie alle vaccinazioni preventive, sempre più estese ed attuate soprattutto sui bambini. Invece dagli anni Ottanta comparve la micidiale infezione virale da HIV trasmessa per via sessuale o ematica (AIDS), con un alto tasso di letalità, poi ridotto grazie ai progressi nella terapia antiretrovirale, che ha già causato comunque 40.000 decessi in Italia. Fu poi la volta di altri allarmi pandemici: dalla SARS (2003) all’aviaria (2005-07), dall’influenza suina (2009-10) al Covid-19, una vera pandemia questa, che ci ha colto impreparati e che ha causato in Italia oltre 200.000 decessi. A Roncadelle il Covid ha provocato 48 vittime.

Grazie alle nuove conoscenze medico-scientifiche e all’efficacia dei nuovi vaccini (a volte criticati senza vere motivazioni), numerose malattie infettive sono oggi sotto controllo. Ma nuovi agenti virali compaiono e si diffondono nella popolazione umana, che costituisce ormai un “villaggio globale”, mentre vecchi agenti, un tempo rinchiusi in piccole nicchie ecologiche (o magari germi patogeni sfuggiti a qualche laboratorio scientifico), vanno espandendo la loro area di attività. Le moderne epidemie corrono rapidamente sfruttando i sempre più veloci mezzi di trasporto e un germe può cogliere di sorpresa la vigilanza sanitaria, anche per imprevisti “salti di specie” o imprevedibili varianti. Persino i cambiamenti climatici possono far comparire e diffondere nuovi agenti infettivi. Tutto ciò induce a ritenere che, nonostante i notevoli risultati conseguiti (basti pensare al raddoppio della vita media nell’ultimo secolo), la vita umana non possa mai ritenersi esente da un certo livello di precarietà. D’altra parte, come ci ricorda Giorgio Cosmacini, “la vecchiaia e la morte costituiscono parte integrante del nostro patrimonio genetico”.