DIALETTO

Lunedì, 14 Luglio, 2025 - 16:00
Ufficio: 
Cultura e Sport
Data pubblicazione: 
Lunedì, 14 Luglio, 2025
Area Tematica: 

Il dialetto bresciano, diffuso in tutta la provincia di Brescia, oltre che nella parte nord-occidentale della provincia di Mantova e in parte della provincia di Trento, è un idioma del gruppo orientale della lingua lombarda, appartenente al ceppo delle lingue gallo-italiche. Il dialetto di Roncadelle è quello dell’area cittadina, con la quale la comunità locale ha condiviso secoli di storia e di cui continua a far parte come Comune dell’hinterland. Si differenzia dal dialetto dei paesi limitrofi sia per la pronuncia di alcune parole, sia per la più rapida italianizzazione di antichi vocaboli.

 

Fino agli anni Sessanta, quando l’economia girava ancora in gran parte attorno all’agricoltura e all’allevamento, il dialetto era l’idioma più conosciuto e parlato sul territorio bresciano. Ma è andato via via perdendo una vasta varietà di vocaboli (molto diversi dall’italiano) per lo più legati al vecchio mondo rurale e ad antiche espressioni, di cui non sempre si riesce a cogliere il significato originario.

Derivato da un sostrato celtico, già contaminato da altre lingue parlate da antiche popolazioni locali (Liguri, Etruschi, Reti), il dialetto bresciano ha adottato la struttura linguistica latina all’inizio dell’era cristiana. La caduta dell’impero romano portò alla formazione di comunità territoriali, nelle quali ripresero vigore i precedenti sostrati linguistici, che assorbirono poi termini ed espressioni di varia origine: gotica, longobarda, franca, veneta, tedesca, francese, ecc.

Nella lingua latina e quindi in quella italiana sono comunque confluiti diversi vocaboli, usati tuttora, derivati dagli antichi idiomi celtici e germanici (gotico, longobardo, francone), oltre ai vari nomi di persona e di luogo che sono stati tramandati. E anche il dialetto bresciano ha conservato per secoli molte di quelle parole, alcune delle quali hanno cambiato significato.

I Celti, oltre a trasmetterci l’uso delle vocali turbate ü e ö, ci hanno lasciato in eredità diversi vocaboli (sempre meno usati), come maöla (fragola), brüc (erica), bröl (brolo, orto), bèna (carro ribassato), betöm (bitume), bògia (ventre), brìsa (briciola), caàgna (gerla), ciapà (prendere), gajàrd (robusto), galèta (pane secco militare), paröl (paiolo), perù (forchetta), arènt (vicino), ecc.

La maggior parte delle parole dialettali derivano dal latino. Alcune di queste sono storpiature di locuzioni molto usate. Ad esempio, encö (oggi) deriva da hinc hodie (proprio oggi), negót (niente) da nec guttam (neanche una goccia), sömelèc (lampo) da simul ac (in contemporanea), ecc.

Anche i Goti (Ostrogoti) che hanno dominato il territorio locale per pochi decenni (493-563 d.C.) hanno lasciato qualche traccia nel dialetto bresciano con vocaboli come béga (lite), gràm (gramo), sguèrs (sguardo storto), s.cèt (schietto, ragazzo), spölèta (rocchetto), schità (scagazzare), ecc.

La lingua dei Longobardi, che hanno dominato gran parte dell’Italia per due secoli, sopravvive nella lingua italiana con circa 700 vocaboli e nella parlata bresciana con termini come barba (zio), barèla (asse di trasporto), bizigà (lavoricchiare), bréda (campo delimitato), burìda (aggressione verbale), fodreghèta (federa), ghéda (grembo), ghidàs (padrino), magù (stomaco), scàgna (sedia), schincà (rompere), scür (imposte delle finestre), spéd (spiedo), spisigà (pizzicare), stöch (stucco), stosà (ammaccare), stràch (stanco), tarnegà (togliere il fiato), vardà (guardare), ecc.

Dopo di loro i Franchi, nel secolo di dominio carolingio, hanno lasciato tracce della loro lingua nel dialetto bresciano con termini come gróp (nodo), guànt (guanto), fànt (fante), ecc.

Sappiamo che Dante, sette secoli fa, definì l’idioma bresciano così “irsutum et yspidum” che la donna che lo parla perde la sua femminilità. Ma quella pronuncia gutturale e aspirata, arrivata dalle popolazioni montane; quella tendenza a troncare le parole, quasi si volesse risparmiare fiato e tempo; quella rude asprezza di vocaboli e di espressioni, non manifestavano forse il carattere bresciano, così ruvido, asciutto e schietto?

Il dialetto bresciano ha risentito molto anche dell’intreccio con il bergamasco, in seguito alle massicce migrazioni (vere e proprie trasfusioni demografiche) dovute alle devastanti epidemie del Basso medioevo e dei secoli successivi, tanto che i due dialetti possono essere confusi, anche se quello bresciano si è un po’ addolcito sotto l’influenza della parlata veneta durante la plurisecolare dominazione della Repubblica di S. Marco. Il fiume Oglio ha costituito comunque un efficace baluardo contro altre contaminazioni, anche se il dialetto bresciano non è mai stato unitario, risentendo di varianti zonali ancora facilmente identificabili, sia nei vocaboli (gnàro/matèl, sòc/s.cèpol, fasöl/mantilì, ecc.) che nella pronuncia (h aspirata al posto della “s”, finale in “c” anziché in “t”, ecc.) e di parlate locali (a Lumezzane, in alta Valcamonica, sul Garda) che risultano piuttosto ostiche.

Alcuni termini dialettali sono stati assorbiti dal contatto con altre lingue nazionali. Dal francese sono derivati diversi vocaboli, come articiòch (carciofo), asé (abbastanza), frànch (soldi), öv (uovo), petinös (mobiletto per il trucco), plafù (soffitto), rebelòt (disordine, confusione), relòj (orologio), soför (autista), ecc. Ma non mancano derivazioni spagnole (lóch = stupido), austriache (ghèi = centesimi, centimetri), tedesche (slandrù = bighellone), inglesi (fóbal = calcio) e persino greche (usmà = annusare).

Dopo aver resistito a varie dominazioni politico-militari, con qualche inevitabile contaminazione, il dialetto ha cominciato a declinare quando, con l’unificazione politica e culturale della penisola italica, ha dovuto accettare l’egemonia della pur bella lingua toscana (imposta nell’insegnamento scolastico), ma è entrato in evidente crisi un secolo dopo, quando “la TV ha preso il posto del focolare e i figli non masticano il linguaggio dei padri” (G. Valzelli).

Negli ultimi decenni, molti vocaboli, per lo più legati a vecchie usanze e ad antichi mestieri, sono scomparsi dall’uso quotidiano ed altri sono stati sostituiti da termini italiani, sia pure dialettizzati. Le parole straniere (soprattutto inglesi) sono entrate nell’uso comune con la giusta pronuncia. Il dialetto si è dimostrato insomma inadeguato a sostenere una realtà complessa e in rapido mutamento. D’altra parte, una lingua è destinata a tramontare quando si appanna l’identità della comunità che la parla, ossia quando una comunità abbandona la mentalità e lo stile di vita della propria tradizione per adottarne altre. E la globalizzazione in atto sta uniformando gradualmente le mentalità e i linguaggi.  Ma, insieme ai dialetti, si va smarrendo un mondo. Per chi è nato prima dell’era televisiva, il mondo era il volto dei vicini e dei compagni di gioco, la scuola severa e i pomeriggi all’oratorio, la porta di casa sempre aperta e il gioco del ciàncol in strada, il sudore del lavoro nei campi o in officina, il bagno nella roggia e l’ossessivo concerto di cicale nella campagna assolata, la nebbia tanto spessa “che ta püdièt tajàla co’l réf” e il silenzio ovattato del paesaggio nevoso, il ricamo di ghiaccio sui vetri e il ritorno festoso delle rondini, la stanca cantilena del muléta e l’allegro ritornello del verticàl, l’attesa di un giocattolo nuovo da santa Lucia e l’allestimento di un semplice presepio in casa…

Ma, forse proprio perché al tramonto, il nostro dialetto appare ancora oggi in tutta la sua struggente espressività, come gli alberi in autunno. Ed è apprezzabile lo sforzo dei poeti dialettali, che utilizzando termini desueti ma ancora efficaci, dimostrano che “pure dal dialetto in fama di rozzezza quale il bresciano, possono uscire versi musicali, con echi di suoni e reiterazioni impensate” (Aldo Cibaldi). Anche Roncadelle ha avuto i suoi bravi cultori del dialetto locale, tra cui possiamo citare Carlo Turlini e Roberto “James” Ferroni per la poesia, nonché il prof. Omero Sala per la pubblicazione dei volumetti “Da có a pè” (2020) e “A parlà de cül e mèrda” (2023).

Il dialetto bresciano ha un proprio vocabolario e proprie regole grammaticali, anche se non ha uniformi regole di scrittura. Per quanto riguarda i vocabolari di carattere generale, risultano utili e interessanti quello del Seminario di Brescia (don Bartolomeo Pellizzari e i suoi chierici) risalente al 1759; quello di G. Battista Melchiori (1817); il “Piccolo dizionario delle voci bresciane” di Stefano Pinelli (1851); quello di Gabriele Rosa (1877) e di A. Valentini (1872). Più recenti sono il “Nuovo vocabolario ortografico bresciano” di Giovanni Scaramella (1986), il “Viaggio sentimentale attraverso il Bresciano” di Licinio Valseriati (1995), il “Prontuario vocabolario bresciano” di Antonio Bonometti (2003) e quello di Mario Castriota (2003). La mancanza di un vocabolario etimologico bresciano completo e attendibile è attribuibile alla complessità dei problemi che molti vocaboli comportano. Una lingua, infatti, finché vive è in continua evoluzione, essendo un intreccio di connessioni, innesti, apparentamenti, contaminazioni, prestiti, scambi, creazioni, cambi di significato. Né più né meno come una società. Anche se traccia precisi confini identitari, il dialetto non è mai stato un recinto chiuso; ha cercato la relazione e l’inclusione; ha saputo riconoscere i propri limiti e i propri ritardi; non ha cercato la supremazia, ma l’armoniosa convivenza.