CURTIS DI S.GIULIA

Lunedì, 23 Giugno, 2025 - 15:30
Ufficio: 
Cultura e Sport
Data pubblicazione: 
Lunedì, 23 Giugno, 2025
Area Tematica: 

Il nucleo rurale di Sant’Ulgina (S. Giulina), che diede origine alla Contrada di Sopra, fu per qualche secolo il fulcro dell’antica “corte” del monastero femminile di S. Giulia a Roncadelle.

 

Inizialmente si chiamava curtis lo spazio, generalmente non grande e circondato da una siepe, situato presso la casa padronale, come si deduce anche dall’Editto di Rotari del 643. Nei secoli successivi, e soprattutto nel periodo carolingio, veniva così chiamata un’azienda produttiva, spesso molto vasta, che faceva capo allo stesso proprietario e tendente all’autosufficienza e all’autoconsumo. Era articolata in due parti tra loro complementari: la pars dominica (ossia del signore), gestita in maniera diretta dal proprietario attraverso il lavoro dei propri dipendenti, e la pars massaricia (ovvero dei contadini), suddivisa in poderi (mansi o sortes), assegnati in concessione temporanea ai coloni e alle loro famiglie, che dovevano pagare al proprietario un canone annuo in natura e prestare un certo numero di giornate lavorative sul dominico.

Come fossero organizzate le curtes di Santa Giulia, lo si deduce da un importante documento (Breviaria de curtibus monasterii), fatto redigere dal monastero tra la fine del sec. IX e l’inizio del sec. X. Si tratta di un prezioso inventario sintetico dei beni e dei proventi del monastero nelle circa 90 corti e curticellae sparse per l’Italia, chiamato anche “polittico”, perché composto da più pergamene (delle 13 iniziali, ne sono rimaste 12).

Dall’inventario sappiamo che a capo di ogni corte vi era uno “scario” (fattore) o un “canovario” (cantiniere, magazziniere), che raccoglieva i censi in denaro e in natura, coordinava il lavoro dei “servi prebendari” (veri e propri schiavi del monastero) e degli “aldii” (uomini semiliberi, utilizzati soprattutto per i trasporti e i messaggi), assegnava ai “manenti” (contadini legati in permanenza alla terra) e ai “livellari” (coloni con contratti scritti) i lavori da svolgere sulla parte domenicale e teneva il collegamento tra la corte e il monastero; in cambio dei suoi servigi riceveva una o più sortes. Nel documento citato, circa la metà dei rustici risulta “manentizia”, un quarto libera e un quarto servile.

Il centro della corte era costituito da un gruppo di case, dalla “caminata” (casa con camino, generalmente riservata al rappresentante del monastero e utilizzata anche per le riunioni importanti), da cantine, granai e fienili dislocati intorno ad un cortile; spesso vi era anche una cappella, con una propria dotazione fondiaria. Dei terreni non vengono ripotate le dimensioni, ma la quantità di semente (in moggi) necessaria per seminarli e il numero di anfore di vino (ogni anfora corrispondeva a circa 25 litri) o di carri di foraggio che producevano. Dalla composizione delle scorte si deduce che i cereali più diffusi erano la segale, il frumento, il miglio, l’orzo e l’avena, ma non mancavano cereali minori (“melega”, spelta, panico) e i legumi.

Oltre la metà delle corti disponeva anche di boschi, che venivano utilizzati per allevare suini ed ovini, mentre le “selve infruttuose” erano almeno 11. Si è calcolato che, nel territorio bresciano, su oltre 18.000 piò di terreni l’aratorio rappresentava il 38%, il prato stabile il 10% e l’incolto (dove si attingevano risorse naturali e complementari) poco più della metà dei possedimenti (52%). Il possesso diretto di animali non risulta particolarmente elevato: nel polittico sono elencati 1.491 ovini, 1.470 suini, 284 bovini, 1.763 animali da cortile; ma al monastero spettava anche una parte degli animali allevati dai coloni. Quanto veniva prodotto o allevato nella parte massaricia non è dato sapere: l’inventario elenca solo quanto rendeva al monastero in moggia di cereali, anfore di vino e denari.

Dai dati elencati, anche se incompleti, si ha quindi il quadro di una vasta e articolata azienda agricola, che dava lavoro ad oltre 741 dipendenti e a più di 800 famiglie di coloni. I manenti e i livellari, oltre a coltivare il podere avuto in assegnazione per un lungo periodo (normalmente 29 anni), avevano l’obbligo di lavorare gratuitamente la parte domenicale della corte per una o più giornate alla settimana e di versare al monastero circa un terzo dei cereali prodotti, la metà del vino, una parte degli animali che allevavano, cui si aggiungevano normalmente vari donativi in natura (formaggi, pesci, olio, miele, torce, legna, ecc.). Molti manufatti (stoviglie, tessuti, utensili da lavoro, armi) venivano fabbricati all’interno delle curtes utilizzando i materiali a disposizione. E anche le donne contribuivano ai lavori che si rendevano necessari, con specifiche mansioni.

Nei secoli IX e X l’attuale territorio di Roncadelle doveva appartenere in gran parte al monastero, come risulta da vari documenti successivi; ma il suo nome non compare su quel polittico. Evidentemente non era ancora identificabile con un suo distinto toponimo, documentato solo dall’inizio del Basso Medioevo, ed era quindi aggregato al nome del villaggio più vicino o compreso nelle proprietà suburbane del monastero. L’ipotesi più probabile è che sia stata elencata col nome di Torbole, la cui giurisdizione arrivava fino al fiume Mella, come risulta dai documenti successivi. Non citata nel Diploma di Lotario del 15 dicembre 837, la corte di Torbole venne probabilmente costituita dal monastero di S. Giulia accorpando tutti i beni posseduti in quel territorio, dopo che il villaggio di Torbole venne ceduto nell’841 al monastero maschile di S. Faustino con la maggior parte dei terreni circostanti. Nell’inventario-polittico, essa è così descritta:

In curte Turbulas casa I, terra arabilis ad seminandum modia LX, vinea ad anforas V, pratas ad carradas II et silva infructuosa; prebendarii infra curte V; de frumento modia III, segale modia XII, de ordeo modia VI: hoc sunt insimul modia XXV; boves IIII, porcos III, oves X, capras III, pullos XV.

Nella pars dominica della corte vi erano dunque una casa padronale, terreni arativi per 60 moggi di seminativo, vigne per 5 anfore di vino, prati per 2 carri di foraggio, e una selva infruttuosa; i dipendenti diretti erano 5; poi vi erano scorte di frumento (3 moggi), segale (12 moggi), orzo (6 moggi); gli animali allevati nella corte erano 4 buoi (per i lavori agricoli), 3 maiali, 10 pecore, 3 capre e 15 polli. Questa corte è una delle pochissime prive di dati sulla pars massaricia; ad essi era probabilmente destinato il successivo spazio di cm. 24 rimasto bianco sulla pergamena, essendo improbabile che la corte fosse gestita interamente dal monastero.

Se si prende per buono il valore di 70 litri per il moggio bresciano nell’Alto Medioevo e il rapporto di un moggio di semente per mezzo ettaro di superficie (come proposto da François Menant), il dominico di Torbole comprendeva circa 90 piò di terre arabili, cui bisogna aggiungere i prati, le vigne e i boschi, di cui non sono definibili le estensioni, ma che con ogni probabilità superavano ampiamente quella delle terre arabili. Nei granai erano immagazzinati 21 moggi (circa 1.470 litri) di cereali, che servivano probabilmente come scorta per la successiva semina. Si rileva una netta prevalenza della segale (57%) rispetto all’orzo (29%) e al grano (14%). Anche se mancano i dati del massaricio, la corte di Torbole risulta tra le minori dell’inventario, sia per estensione delle terre arabili che per produzione di vino e di fieno, nonché per numero di dipendenti e di animali.

L’agricoltura locale ritrovò comunque nuovo vigore a partire dal sec. XI, quando cominciò ad essere attuata una decisa opera di bonifica e dissodamento del territorio locale. La colonizzazione avviata in epoca romana su parte del territorio locale e poi interrotta per alcuni secoli venne ripresa con gradualità dai contadini dell’epoca, che ricavarono nuovi spazi agricoli rubandoli al bosco, alla sodaglia, alla palude; gli strumenti più usati, prima di ricorrere alla vanga e all’aratro, erano l’ascia, la scure, la roncola, la sega. Con strumenti rudimentali e, soprattutto, con la fatica delle loro braccia, i contadini liberarono il terreno dai sassi, estirparono erbacce, tagliarono alberi, dissodarono i campi loro affidati, cominciando a conferire al paesaggio una fisionomia nuova, che si andò definendo nei secoli successivi come sempre meno “boschiva” e sempre più “arativa” e “prativa”. Oltre a ridurre la vegetazione spontanea, essi livellarono terreni, prosciugarono acquitrini e costruirono opere di difesa contro le frequenti alluvioni del Mella (v.) e delle rogge (v.).

I monasteri benedettini di S. Giulia e di S. Faustino, i cui fondi erano confinanti, operarono probabilmente in sintonia per la necessità di unire le forze nelle imprese più impegnative. Uno dei principali problemi affrontati per rendere produttiva la zona fu sicuramente quello di regimentare le acque. Il Gandovere e il Mandolossa vennero opportunamente collegati, incanalati e ramificati, per poter irrigare il maggior numero di campi coltivati nella parte occidentale del territorio locale. Alcune risorgive particolarmente abbondanti diedero origine a vasi d’irrigazione, come avvenne per l’Arnoldo (o Arenolda), realizzato con ogni probabilità dai frati di S. Faustino di Torbole, che nel ‘500 reclamavano ancora diritti sulle sue acque.

Dai documenti successivi risulta che la sede della curtis di Roncadelle era posta accanto alla roggia Mandolossa, sulla strada rurale per Travagliato, presso l’incrocio che consentiva un rapido collegamento sia con la strada di Torbole che con quella di Palazzolo. La scelta del sito non fu certamente casuale, ma suggerita dalla morfologia stessa del suolo in rapporto ai corsi d’acqua e alle vie di comunicazione: il punto di riferimento amministrativo del monastero non poteva che essere a ridosso dei terreni più produttivi, in una zona abbastanza protetta dai capricci del Mella, ma vicino ad un corso d’acqua che, adeguatamente imbrigliato, si rivelava prezioso sia per l’irrigazione che come forza motrice.

In una pergamena del 1315 riguardante l’investitura dei beni e dei diritti di Roncadelle, la sede della curtis di S. Giulia risulta composta da una “domum magnam, alias domos, fenille et molendinum” e nel prosieguo del testo si accenna anche ad un “curtivum” e ad un “pontem”. Pochi anni prima, il 15 maggio 1306, i vicini riuniti nella piazza davanti alla chiesa di S. Giulia avevano chiesto alla badessa la possibilità di avere un sacerdote permanente impegnandosi a fornirgli il necessario sostentamento.

All’inizio del ‘300 (ma probabilmente anche prima) la sede della corte di Roncadelle era quindi un nucleo rurale articolato, composto da una casa padronale, da altre abitazioni (per i servi “prebendari”), da un fienile, dalla chiesetta di S. Giulia e da un mulino (v.), che facevano da corona ad un cortile o grande aia, che fungeva anche da piazza per gli abitanti della zona. Vi era probabilmente posto anche per un granaio e per i locali di ricovero degli animali. La struttura doveva essere chiusa e in muratura, anche per esigenze difensive. Il ponte era quello che consentiva di attraversare la roggia Mandolossa. I coloni abitavano invece in casette di legno e argilla sparse sui campi del “massaricio”.

Dai documenti di S. Giulia del sec. XII, si può rilevare che i terreni da coltivare venivano normalmente affittati a persone di fiducia, con contratti livellari di 29 anni, in cambio di un canone d’affitto annuo prevalentemente in natura. Spesso la concessione riguardava un gruppo di famiglie, provenienti per lo più da località vicine. Alcuni fondi erano concessi in feudo, come gli appezzamenti gestiti dai de Ripa o dai Carzia. Testimoni di queste investiture feudali erano altri vassalli del monastero, come gli Ugoni, i Confalonieri, i Lavellongo. Alcuni terreni venivano ceduti in perpetuo in cambio di un canone annuo in natura e in denaro, come avvenne nei confronti dei de Bozis nel 1210. La lunghissima durata delle concessioni faceva talvolta perdere al monastero la memoria dei propri diritti di proprietà e favoriva i tentativi di usurpazione. Sintomatica appare, a questo proposito, la causa giudiziaria avviata nel maggio 1200 dalla badessa Elena Brusati nei confronti dei suoi feudatari Apostasio e Maifredo Avogadro, che rivendicavano il possesso di una “braida” in Roncadelle, concessa in feudo per oltre quarant’anni alla famiglia Malammazzati, a cui gli Avogadro pretendevano di subentrare.

Grazie al lavoro di trasformazione del territorio e alle nuove acquisizioni di terre, il monastero gestiva direttamente o indirettamente gran parte del territorio locale esercitandovi ancora un vasto potere, affermando ed estendendo la propria indiscussa signoria territoriale anche sui coloni non compresi nell’ambito della corte. Ma compravendite, donazioni, permute e usurpazioni stavano modificando gradualmente la mappa delle proprietà di Roncadelle, dove viveva ormai stabilmente una piccola comunità.

Nel 1248 l’abate Gielmo di S. Faustino e la badessa Tuttobene Confalonieri di S. Giulia ridefinirono i confini delle loro rispettive proprietà a Roncadelle, in località campanea sicca, detta anche Casapagana, determinando così una definitiva demarcazione tra i territori di Torbole e di Roncadelle.

Verso la fine del ‘200, la durata di locazione dei terreni del monastero risulta ridotta a 9 anni ed il canone annuo fissato per lo più in denaro. Ciò era dovuto ad una situazione politica precaria e alle nuove dinamiche economiche e sociali.

L’affermarsi del Comune di Brescia nei secoli XII e XIII, pur producendo profonde lacerazioni nella vita civile e religiosa, con frequenti e cruenti scontri interni ed esterni, determinò anche una maggiore attenzione della città verso il territorio suburbano, sia per questioni di difesa che di approvvigionamento. Oltre che rivendicare costantemente la lunga fascia di territorio lungo le due sponde del Mella, da Cobiato fino ad Onzato, il Comune cittadino si preoccupò di ripristinare le antiche strade e di costruirne di nuove, stipulando anche convenzioni con altri Comuni del territorio per mantenerle agibili e per renderle il più possibile sicure. La manutenzione del tratto di strada tra Brescia e Torbole, divenuto particolarmente importante dopo la costruzione della fortezza di Orzinuovi nel 1193, fu affidata alla comunità di Torbole. Alla stessa comunità, nel 1224 e nel 1248, il Comune di Brescia ordinò di provvedere alla costruzione di un ponte sul Mella in corrispondenza della strada di Orzinuovi, “buono” come quello di S. Giacomo, e di mantenerlo in efficienza con i relativi argini; in cambio gli abitanti di Torbole ottenevano esenzioni fiscali per 20 anni ed il privilegio di potersi poi stabilire nella fortezza di Orzinuovi.

La manutenzione della strada e del ponte era piuttosto onerosa, anche a causa delle frequenti alluvioni e inondazioni del Mella. E furono probabilmente le proteste della comunità di Torbole a richiedere l’intervento di Pietro della Noce, soprintendente alla strada di Torbole, sull’opportunità di coinvolgere anche la comunità di Roncadelle per la manutenzione della strada; ma egli nel 1255 confermò l’esenzione dei Roncadellesi, ancora considerati “familli” di S. Giulia. Negli anni seguenti venne ribadita per gli abitanti di Roncadelle anche l’esenzione dai lavori di sistemazione e riparazione della roggia Mandolossa. Tali deliberazioni, che sottolineano la scarsa entità della popolazione locale (“terra de Roncatellis non est universitas nec communitas”), nonché il persistente dominio di S. Giulia su di essa, rivelano però indirettamente che la comunità locale stava crescendo e che non era completamente alle dipendenze del monastero.

In quel periodo per S. Giulia iniziava un processo di decadenza, come per tutti i monasteri benedettini, che si andò acuendo nel corso del sec. XIV. Le cause della crisi sono da attribuire innanzitutto al clima politico di incertezza e di continua tensione vissuto dalla città in quel periodo. Ma alla crisi non furono estranei altri fattori, quali la concorrenza dei nuovi ordini religiosi (soprattutto francescani e domenicani), la dilagante rilassatezza morale, il progressivo sfaldamento delle proprietà fondiarie, la prepotenza delle aristocrazie locali e l’aggressiva scalata al potere di nuove classi sociali.

A livello locale, la crisi del monastero si manifestava nell’incapacità di proteggere in modo adeguato i propri possedimenti e i propri dipendenti. Se nel 1200 la badessa Elena Brusati riusciva ancora a tener testa alle avide pretese degli Avogadro, è presumibile che, col passare dei decenni, vari appezzamenti di terra siano stati invece perduti, più o meno consapevolmente, dal monastero. Oltre alla difficoltà di poter dimostrare i propri antichi diritti di proprietà, vi era anche il fatto che le monache provenivano in gran parte dalle famiglie più potenti di Brescia e tendevano a favorire gli interessi del proprio casato anziché quelli del monastero. Inoltre, i conflitti tra le fazioni cittadine si riverberavano anche all’interno del prestigioso cenobio e la rivalità tra le monache si fece sempre più accesa, tanto che la scelta della badessa era diventata un’estenuante battaglia di veti incrociati: nel 1294 e nel 1315 si dovette ricorrere a vicarie reggenti e, nel 1363, addirittura alla nomina di una monaca esterna.

Le gravi difficoltà in cui si dibatteva S. Giulia non fecero che stimolare gli appetiti della nobiltà e della nascente borghesia, che avviarono un’aggressiva politica di accaparramento fondiario ai danni del monastero. Inoltre, persone e animali provocavano frequenti danni alle proprietà di S. Giulia; tanto che il Comune di Brescia decise di intervenire mettendo sotto la propria protezione i territori suburbani più esposti, come quello di Roncadelle: il 23 febbraio 1298 Zuchonus de Pallatio, amministratore del Comune cittadino, pose i beni di S. Giulia situati “in churte et terratorio di Ronchathellis” sotto la custodia delle Chiusure, diffidando chiunque dal crearvi danneggiamenti.

Il proclama, che fu reso pubblico, oltre che a Roncadelle, anche nelle vicine località di Torbole e Travagliato, costituì il primo passo per sottoporre il territorio locale alla giurisdizione delle Chiusure (v.) di Brescia, un’operazione favorita dall’aristocrazia e dalla borghesia cittadina.

Mentre tramontava l’egemonia di S. Giulia, a Roncadelle nel corso del ‘300 si andarono affermando alcune famiglie della nuova borghesia cittadina, tra cui i Porcellaga (v.), che resero poi visibile la loro preminenza sul territorio locale con l’erezione del castello (v.).