AGRICOLTURA

Alla metà del ‘900 campeggiava ancora nei terreni ad ovest di via Roma un originale belvedere dedicato a Cerere, dea delle messi, che appariva come simbolo dell’attività agricola rimasta prevalente a Roncadelle fino ad allora. L’agricoltura, fonte dei beni necessari alla vita degli uomini, è il faticoso e sapiente lavoro delle braccia e della mente, che permette di aprire l’immenso scrigno della natura per godere dei suoi frutti. Non a caso l’agricoltura è chiamata anche settore primario: essa precede ogni attività economica e da essa dipende la sussistenza (o la sopravvivenza) dell’uomo.
Età antica. L’agricoltura a Roncadelle dovette essere inizialmente limitata a poche radure ricavate su un territorio poco ospitale e poco produttivo, spesso inondato dai corsi d’acqua che lo attraversavano. È stata infatti la grandiosa opera di centuriazione (v.) dei Romani ad avviare uno straordinario processo di trasformazione del territorio e del paesaggio. Le modificazioni dell’ambiente naturale attuate nel I secolo d.C., sia pure limitate alla parte occidentale del territorio (allora legata a Torbole), furono talmente incisive da resistere per secoli e da essere tuttora rilevabili.
La centuriazione guadagnò all’agricoltura diversi terreni con le opere di bonifica, con i dissodamenti, i disboscamenti, la regolamentazione dei corsi d’acqua, la costruzione di insediamenti dei lavoratori. Lo sfruttamento dell’aratorio era basato sull’alternanza dei cereali (termine derivato dalla dea Cerere) e del maggese (campo a riposo, dissodato a maggio) ed era spesso accompagnato da viti maritate ai filari d’alberi che delimitavano i campi, secondo una tecnica che i Galli Cenomani (v.) avevano appreso dagli Etruschi. Oltre al grano (principe dei cereali), si coltivava allora miglio, panico, lino, fave, rape ed erba medica. I lavori agricoli venivano svolti da schiavi, oltre che dai coloni, con l’aiuto di cavalli per l’aratura. L’aratro, già comparso nel Bresciano in epoca preistorica, venne perfezionato.
Nel III-IV secolo d.C. la piccola proprietà cedette sempre più il posto alle grandi aziende, appartenenti per lo più a possidenti cittadini. I fondi delle famiglie più ricche, che vivevano in città, avevano un’estensione complessiva non inferiore ai 150 piò. Uno di questi poteva appartenere a Sextus Niger Sollonius citato dall’epigrafe (v.) ritrovata presso il Savoldo nella zona sud di Roncadelle.
Il territorio veniva sfruttato alternando cereali e maggese e consentiva l’allevamento non solo del bestiame necessario ai lavori agricoli, ma anche di quello destinato all’alimentazione e ad altri utilizzi: suini, ovini, animali di bassa corte.
Medioevo. Con la crisi dell’Impero romano, che Diocleziano cercò in vario modo di tamponare, anche attraverso il divieto ai sudditi di cambiare mestiere, la campagna si andò gradualmente spopolando, lasciando spesso il posto a boschi, sterpeti e acquitrini. La grande proprietà in mano ai “patroni” assorbì i piccoli e medi proprietari, con conseguente loro sfruttamento, denunciato anche dal vescovo bresciano Gaudenzio. La scarsità della popolazione locale di quel periodo lascia pensare ad un’agricoltura quasi solo di autoconsumo e pascoliva.
Con l’arrivo dei Longobardi (v.), che nel 569 fondarono un ducato a Brescia, i grandi possidenti furono espropriati e l’attività agricola rimase in mano ai contadini e ai piccoli proprietari, ridotti a servi e obbligati a versare un terzo dei prodotti del raccolto ai nuovi padroni, che preferivano valorizzare le aree boschive e selvose, più congeniali alle loro tradizioni di nomadi. Il territorio di Roncadelle divenne ben presto una curtis regia di proprietà della corona, utilizzata per la caccia (ad esempio, dal re Astolfo) e per la fornitura di legname al palazzo ducale di Brescia.
Nel 760, al tramonto del dominio longobardo, la curtis (v.) di Roncadelle venne donata dal re Desiderio al monastero di S. Salvatore (poi denominato S. Giulia), che nei secoli seguenti cercò di ricavarvi qualche profitto affittandone alcuni appezzamenti per la coltivazione o l’allevamento. La curtis (con un’estensione calcolabile in circa 240 piò) aveva una struttura feudale, con una sede padronale che gestiva i terreni migliori, mentre i “mansi” o poderi attorno venivano affidati a coloni con contratti di lunga durata. Grazie all’impegno e al sudore dei contadini, vennero recuperati all’agricoltura anche terreni abbandonati da tempo. Dopo aver liberato il terreno dagli alberi e dagli arbusti (“runcare”), si dissodava la terra arandola in profondità con zappe o marre e si procedeva alla sarchiatura del suolo liberandolo dai sassi più grossi; dopo l’aratura, si concimava la terra per prepararla alla semina o per predisporla alla piantumazione. Gli attrezzi usati, procurati dai contadini stessi, erano ancora piuttosto rudimentali, fatti per lo più in ferro e legno: roncole ed arnesi da taglio, zappe, vomeri, aratri, accette, forche e forconi.
Dall’inventario o “polittico” di S. Giulia (v.), compilato intorno al 900, si deduce che la parte dominicale della corte di Torbole-Roncadelle poteva avere circa 90 piò di terre arabili, alle quali vanno aggiunti i prati, le vigne e i boschi, di cui non sono definite le estensioni, ma che con ogni probabilità superavano quella delle terre arabili. Nei granai erano immagazzinati 21 moggi (circa 1.470 litri) di cereali, che servivano forse come scorta per la successiva semina. Si rileva una netta prevalenza della segale (57%) rispetto all’orzo (29%) e al grano (14%). Anche se mancano i dati della parte “massaricia”, la corte risulta tra le minori dell’inventario, sia per estensione delle terre arabili che per produzione di vino (125 litri) e di fieno, nonché per numero di dipendenti (5) e di animali.
Lungo tutto l’Alto Medioevo il podere era generalmente connesso ad un’area boschiva e il conduttore era, allo stesso tempo, agricoltore e piccolo allevatore, nonché all’occorrenza boscaiolo e carpentiere. Probabilmente i contadini dovevano anche provvedere alla difesa armata delle terre e dei raccolti. La tecnica agraria era ancora quella romana, come anche la resa (intorno al 3 per uno). Il frumento, il farro e la segale venivano seminati in autunno. Verso la fine dell’Alto Medioevo il frumento venne soppiantato dai cereali inferiori (miglio, sorgo, panico) seminati in primavera e meno sensibili agli impatti atmosferici. I grani grossi (frumento e segale) servivano per fare il pane; quelli minuti, come il miglio, si consumavano come polenta. Generalmente il contadino si dedicava anche alla raccolta stagionale di alcuni frutti, tra cui noci e castagne, garantendosi la disponibilità di alimenti integrativi, spesso più sicuri della cerealicoltura costantemente esposta agli eventi del clima (v.).
Dopo il Mille, con la cessazione delle incursioni ungare, il monastero di Santa Giulia favorì il rilancio dell’agricoltura locale con una lenta opera di bonifica volta a recuperare terreni coltivabili riducendo aree boschive o paludose. L’acqua per irrigare i campi veniva derivata dalle rogge (v.) Gandovere e Mandolossa e dalle risorgive. I risultati si videro a partire dal sec. XII, quando aumentarono i contratti di affittanza col frazionamento delle grosse proprietà affidate a piccoli valvassori e milites, che avevano il compito di mantenere l’ordine e difendere il territorio da ogni aggressione esterna ricevendo in cambio un feudo o una rendita vitalizia. Ed il territorio situato tra il Mella e le proprietà del monastero di S. Faustino a Torbole cominciò ad essere identificato col nome (v.) di Runkethellis. Fu probabilmente in questo periodo che venne realizzato il vaso Arenoldo (o Renolda) canalizzando le acque di una risorgiva per irrigare i terreni ad est della roggia Mandolossa.
Le coltivazioni più diffuse rimasero il frumento e il miglio (talvolta seminati in rotazione nel corso dello stesso anno) e, in quantità minore, la segale. Una grande attenzione veniva riservata alla produzione del vino, sia per consumo alimentare che per le cerimonie religiose; e il monastero puntò ad estendere la viticoltura (v.) anche lungo il Mella.
Intanto si era costituito il Comune di Brescia, governato dai membri di alcune potenti famiglie, quali i Sala, i Lavellongo, i Palazzi, i Confalonieri, gli Avogadro, i Brusati, i Griffi, ecc., che adottarono una politica aggressiva sul contado e sui territori limitrofi. Terra e lavoro contadino erano visti soprattutto come mezzi e strumenti per il sostentamento della classe dirigente.
Nel corso del ‘300 si manifestò la crisi della gestione fondiaria del Monastero di S. Giulia, dovuta a pressioni di vario genere e alla instabilità politica, che esponeva le proprietà monastiche a scorrerie e saccheggi, nonché ad usurpazioni. Nel 1348 per di più arrivò la micidiale peste nera, che insieme al calo demografico comportò, nella seconda metà del Trecento, una marcata riduzione delle terre coltivate, trasformate in prati e pascoli, sia per la mancanza di manodopera che per la minore richiesta di prodotti agricoli. A tale depressione economica cercarono di porre rimedio i Porcellaga che, dopo aver acquistato vari terreni ad ovest della città, vi investirono capitali per renderli produttivi. Realizzarono anche una seriola (v.) che, prendendo l’acqua dal Mella presso Urago, poteva irrigare gran parte dei loro terreni di Roncadelle, dove all’inizio del ‘400 eressero un castello (v.) e, pochi decenni dopo, costruirono i cascinali di Antezzate (v.) e Villa Nuova (v.) per gestire al meglio le loro vaste proprietà locali. Cominciarono a diffondersi allora le cascine (o “cortivi”) in muratura aventi uno stesso schema architettonico: una corte a pianta quadrata o rettangolare con casa padronale, abitazioni per le famiglie contadine, la stalla, il fienile e i portici per il deposito dei carri e degli attrezzi. Nell’aia si svolgevano varie funzioni legate all’attività agricola, quali la lavorazione e l’essicazione dei cereali, la distribuzione del raccolto, il deposito temporaneo dei prodotti agricoli, ecc. Si allevavano in cascina, oltre agli animali da lavoro e da trasporto, anche quelli destinati al consumo familiare. In quel periodo sorsero anche la Fedrisa (v.), ad opera dei nob. Federici, ed altre cascine nella Contrada di Sopra, vicino alla più antica cascina di S. Giulina (v.) dotata di mulino (v.).
Ogni terreno era identificato con un nome, che derivava dalla sua conformazione o dalla sua origine: Taiàda, Brüsàda, Breda Catìa, Surtìa, Breda Sàbia, Laèl, Breda Maiöla, Giardì, Campagnöla, Lama, Fontanèle, Onéda, Arnóld, Salècc, Mulì, Bernardìna, Campàs, Cantaràne, Bröl, Végher, Geròt, Fontanù, Müradèi, Videsècc, Tèsa, Pràt de la Guàrdia, Fornasòt, Fornasèta, ecc.
Il territorio di Roncadelle, pur essendo poco produttivo (almeno nella parte orientale), godeva di privilegi (v.) ed esenzioni fiscali, che i Porcellaga avevano ottenuto con l’investitura, per favorire lo sviluppo economico e demografico della zona. Vi fu quindi un rilancio dello sviluppo agricolo, favorito anche dalla rete di irrigazione e dal perfezionamento delle tecniche agrarie. L’economia agraria, grazie anche all’impulso dei Visconti, vide un aumento della produzione di cereali e la diffusione del prato in rotazione regolare. Verso la fine del ‘300 le rese cerealicole raggiunsero il 4 per uno. La terra, spesso acquistata a basso prezzo, con opportuni investimenti non solo aumentava la propria resa, ma si rivalutava rapidamente, soprattutto se trasformata in “arativa, vitata e irrigua”.
Anche i “rustici” campagnoli contribuirono allo sviluppo economico coltivando le loro piccole proprietà, integrandone spesso il reddito lavorando come braccianti per i nobili o svolgendo piccole attività artigianali o commerciali. Ma, nel ‘400, l’aumento dei prezzi agricoli favorì i pochi che producevano per il mercato e pesò sulla maggior parte dei piccoli proprietari rurali, che operavano in un’economia di sussistenza. Molti di loro furono costretti a vendere i loro poderi ai cittadini, che gestivano i fondi in campagna avvalendosi di fattori o affittuali.
Età moderna. All’inizio del ‘500 arrivò a Roncadelle anche la seriola Castrina ad irrigare i terreni di Antezzate e della Fedrisa. Dalle polizze d’estimo del Cinquecento risulta che i vasti possedimenti dei Porcellaga a Roncadelle erano “pezzi di terra aradora et parte vidata et parte prativa”, ma non mancavano appezzamenti di terra “boschiva et parte geriva et sassosa et piena di arzeni”. Nel 1517 Gian Francesco Porcellaga dichiarò che la “possessione” di Roncadelle (212 piò intorno al castello e 48 in contrada del mulino di S. Giulia) rendeva annualmente 130 some (= 200 hl) di frumento, “formentata” e segale, 37 some di miglio, panico e legumi, 10 some di biada per i cavalli e 10 di melga, 58 carra di fieno, 26 carra (= 156 hl) di vino e 6 miara di legna. Trattandosi di una dichiarazione fiscale, i dati erano probabilmente approssimati per difetto, anche perché gli estimi avevano una cadenza piuttosto distanziata e si teneva generalmente conto delle annate cattive, che certo non mancavano.
Nel 1573 Ercole Guaineri (v.) dichiarò di possedere a Roncadelle terreni per 102 piò, in gran parte “aradori et vitati”, in parte “prativi” e in parte “boschivi”, da cui ricavava annualmente 38 some (= 57 hl) di “biava grossa”, 25 di “minuto”, 12 carra di vino (= 72 hl), 22 di fieno e legna in abbondanza.
Nel 1626 i figli di Gerolamo Porcellaga possedevano a Villa Nuova e lungo il Mella circa 135 piò di terreni, dai quali dichiararono di ricavare ogni anno 35 some (= 52,5 hl) di frumento, 5 di segale, 20 di miglio, 10 carra di vino (= 60 hl), 27 di fieno e 7 di legna.
I veri conduttori delle “possessioni” erano i massari, con cui i proprietari stipulavano contratti di mezzadria dividendo a metà i rischi e i risultati della produzione; ma era piuttosto diffusa anche l’affittanza, con la quale il “patrone” affidava i propri terreni a uno o più affittuali (“fittavoli”) in cambio di un canone annuo in denaro e di una quantità stabilita di prodotti in natura. Tali forme di conduzione non incentivavano gli investimenti di capitali nei fondi agricoli e le innovazioni si imponevano con molta lentezza. Tra la metà del ‘500 e la metà del ‘600, alcuni terreni tornarono nelle mani dei contadini. E molti cittadini preferivano trasferirsi in campagna per seguire più da vicino i propri possedimenti, come consigliava l’agronomo Agostino Gallo.
Gran parte della produzione veniva consumata da chi la produceva e dai proprietari, che riuscivano a destinare al mercato solo una parte modesta del raccolto. Fu questa una delle principali cause del processo di inflazione strisciante, solo in parte contrastato dall’ammasso obbligatorio del grano a Brescia, che portò ad un progressivo e diffuso impoverimento nel Cinquecento ed ebbe conseguenze devastanti nel primo Seicento, quando un susseguirsi di carestie ed una micidiale pestilenza portarono ad una significativa riduzione della popolazione e, di conseguenza, della produzione agricola. Rinacquero allora forme feudali e si inasprirono i rapporti sociali, come ben documentato anche nella storia di Roncadelle (v. Porcellaga). La crisi seguita alla peste portò alla rarefazione della manodopera (e ad un rincaro di quella superstite), all’abbandono delle terre meno redditizie, alla contrazione di domanda di derrate agricole e al conseguente decremento dei prezzi dei cereali, anche se il prezzo del frumento si mantenne sulle 70-80 lire la soma (150 litri). Per di più vi furono anni di carestia a causa di eventi naturali (siccità, freddo intenso, piogge frequenti e violente). I tumulti popolari del 1649 a Brescia portarono alla creazione di un fondaco per la vendita di farina di segale e miglio, mentre continuavano a funzionare i Monti di Grano per calmierare i prezzi e favorire i poveri. Un ruolo particolare, tra i cereali minori in sostituzione del frumento, venne attribuito al miglio, che presentava la peculiarità di poter essere conservato anche per lunghissimi periodi. Un’altra coltivazione, a cui venne sempre riservato uno spazio, era il lino, dalla cui pianta, che veniva sradicata e lavorata dalle donne, si ricavava un refe usato nei ricami più delicati ed un tessuto per lenzuola e indumenti intimi, ma anche olio di linosa e farina per medicazioni.
Alla metà del Seicento la superficie agraria di Roncadelle (circa 700 ettari) era suddivisa tra una cinquantina di proprietari, di cui pochissimi superavano i 50 piò: il Monastero di S. Giulia (600 piò), i vari Porcellaga (820), Ludovico Giorgio Federici (80), Ospedale Maggiore di Brescia (70), la famiglia Castrino (62) e i fratelli Guaineri (60), che insieme possedevano tre quarti del territorio. La maggior parte dei campi erano “aradori et vitati” o “prativi”; vi erano anche 11 “broli” di varie dimensioni, il maggiore dei quali era presso il castello (7 piò).
Molti campi incominciarono allora ad essere incorniciati da filari di gelsi lungo le rive dei fossati e dei canali d’irrigazione. La diffusione della bachicoltura (v.) e delle attività produttive ad essa connesse (trattura, filatura e tessitura della seta) trassero notevole impulso dalla crisi agricola di quel periodo. Tale attività non richiedeva lavoro addizionale sfruttando i tempi morti dei lavori agricoli.
La diffusione del mais, cereale americano che aveva una resa molto più elevata rispetto a quella dei grani minuti tradizionali, consentì di fronteggiare la lunga crisi di produzione agricola. Il mais, chiamato frumentone (furmintù), sorgo turco (alla veneta) o granoturco (nel senso di grano esotico), cominciò a diffondersi nella seconda metà del Seicento, dapprima negli appezzamenti di terra lasciati alla disponibilità del colono e poi, con sempre maggior frequenza, nelle rotazioni agrarie in sostituzione dei grani minuti primaverili (avena, spelta, melga) o di secondo raccolto (miglio). Il mais entrò nell’alimentazione popolare con importanza crescente, fino a diventare prevalente; e sollevò la popolazione dalla fame, anche se poi l’uso esclusivo che se ne fece causò la diffusione della pellagra.
Le donne contadine, oltre a dedicarsi al governo della casa e alla cura dei figli, collaboravano col capofamiglia nei lavori agricoli considerati più leggeri, come l’allevamento del baco da seta, la semina del mais, la sua zappatura, la cimatura, la raccolta delle pannocchie, la scartocciatura (“scarfoià”), la seccatura sull’aia, la vendemmia e la pigiatura dell’uva.
La ripresa del settore agricolo si verificò dalla metà del Settecento con nuovi investimenti di capitali nelle campagne, favorita da una successione di buoni raccolti e da un clima propizio, che però fu interrotto nel biennio 1763-64 e nel 1772-73, quando i prezzi dei cereali ricominciarono a lievitare: il prezzo del mais quasi raddoppiò (da 37-38 lire a 68-69). L’affermazione del capitalismo agricolo ebbe anche l’effetto di trasformare molti coloni in salariati.
La coltivazione delle patate, dopo un iniziale rifiuto, cominciò a diffondersi come alimento per gli animali, ma nei periodi di carestia rappresentò una provvidenziale alternativa alimentare anche per i contadini. Nei campi venivano coltivati il frumento, la segale, il granoturco, il sorgo e la vite. I raccolti di frumento e segale erano generalmente doppi; dopo il raccolto del frumento, spesso si seminava il formentone quarantino e il miglio. Nei prati naturali si provvedeva al taglio dell’erba tre volte all’anno: a maggio (fieno maggengo), a metà luglio (agostano) e a fine agosto o inizio settembre (terzuolo o ravarolo); l’eventuale erba successiva era destinata al pascolo delle vacche da latte. Il fieno ottenuto dai prati magri serviva per alimentare le bestie nella stagione fredda. Il lavoro della terra veniva praticato ancora con l’aiuto di buoi per arare la terra; e la carenza di attrezzature e di animali veniva spesso supplita dal lavoro fisico dei braccianti.
Quando il vento della rivoluzione francese arrivò a Brescia produsse numerosi cambiamenti, ma anche crisi economica e miseria. La confisca dei beni monastici in età napoleonica causò il trasferimento della vasta “possessione” di S. Giulia ai Franzini, industriali delle armi di Gardone V.T.
Ottocento. Dal catasto napoleonico (1805-1809) risulta che la superficie del neonato Comune di Roncadelle era di 873 ettari. I nobili possedevano ancora metà del territorio locale e i borghesi il 32%. I maggiori proprietari (con più di 20 ettari di terre) erano Clateo Franzini e figlio (S. Giulia, 499 piò), Scipione ed Ercole Guaineri (334), Federico Martinengo dalle Palle (Antezzate, 314), Beatrice e Matilde Bentivoglio (209), Giovanni Bonomi (Contrada di Sopra, 159), Gaetano e Federico Federici (Fedrisa, 143), Filippo Calini (120), Giuseppe Rota (71), Giuseppe Padovani (69). Anche se era cominciato un passaggio di proprietà dal ceto nobiliare a quello borghese, destinato a progredire nei decenni successivi, risulta evidente un’alta concentrazione della proprietà terriera, che persisterà a lungo, favorita anche dalle crisi agrarie dell’Ottocento, che costrinse molti piccoli proprietari a cedere i loro appezzamenti di terra. I terreni “aratori” più apprezzati erano quelli “vitati” (con filari di viti) o “moronati” (con gelsi), che potevano produrre più redditi.
Le coltivazioni prevalenti a Roncadelle erano il frumento e il mais.
In una relazione del 1818 richiesta dall’Amministrazione austriaca per un censimento del territorio, il deputato comunale Scipione Guaineri fornì alcune informazioni di un certo interesse. Dopo aver precisato che nel Comune non vi erano veri e propri boschi né stagni, illustrò le coltivazioni locali: “Le terre del nostro Comune sono di varia natura, quasi tutte rigide, alcune forti e molte gerive ed in parte sassose, rese sterili dagli straripamenti dei detti Torrenti. Sono suscettibili di varie coltivazioni, cioè a frumento, a sorgo turco, fieno e vino e legne. Le terre, che si coltivano a grano ad eccezione di un ottavo, che annualmente si seminano a trifoglio per riposo delle medesime, vengono coltivate un anno a frumento, l’altro a sorgo turco. Siccome poi la semina del frumento è un vero carico per il Colono, che non ricava della sua parte che poco più della semente, ne deriva che maggior quantità delle terre stesse vengono coltivate a formentone, il quale arreca gravoso dispendio al Proprietario per la quantità del concime che vi occorre e che è costretto acquistare oltre tutto quello può provenire dai fondi stessi”. Riguardo alla resa dei terreni, scrisse: “Si sono considerate della classe buona tutte le terre arative in generale, che si seminano a grano, perché queste seminate a frumento il loro raccolto corrisponde alle quattro sementi, e coltivate a formentone corrispondono nel raccolto a ventiquattro sementi. Si sono considerate per mediocri quelle terre che coltivate a frumento rendono solo due sementi e coltivate a granoturco ne rendono dieciotto sementi, che sono la maggior parte delle terre del nostro territorio. Nella classe cattiva quelle che non danno che una sola semente di frumento e dieci di formentone. Si considerano poi nella classe pessima tutte le altre terre danneggiate ed ingerate dai su nominati Torrenti, quali sono sterili né servono che a scarso pascolo per li bestiami, così pure si ritengono gli Argini e boschine dei med.mi Torrenti, che di tratto in tratto vengono dalle escrescenze inondate, quindi di nessun reddito e così pure le così dette Musne e ripostigli di sassi”. Relativamente ai prati e agli alberi, precisò: “Di tre classi si sono pure considerati li prati; nella buona si sono compresi quelli irrigatorj e che si falciano tre volte ogni anno; nella mediocre quelli che sono irrigatorj di nome, ma che non hanno un’acqua sicura e che si falciano più di una volta secondo l’eventualità delle piogge; nella pessima quelli che non si falciano e che si lasciano ad uso di pascolo per li bestiami, esclusi però anco da questa classe i pascoli vegrivi lungo le arginature del Mella considerati di nessuna rendita. Nelle nostre terre ritrovansi pure alcuni gelsi, de’ quali non si è fin ora parlato, avendoli ritenuti in conto di pochissimo reddito. Li gelsi nel nostro territorio allignano poco per essere piantati in un terreno friggido e che tramanda sorgente, ossia umidità, e ci vogliono molti anni prima che siano in istato da farsi piante forti da rendere honesto frutto, ed inoltre hanno breve durata, perché di cento piante, cinquanta non arriveranno ai venticinque anni e quasi tutte nel periodo di trentacinque anni si seccano. Considerato poi il loro costo, la spesa dell’impianto, coltivazione e cura e gli infortunj, a quali va soggetta la pianta e la foglia ed il rilevante danno che arrecano alle entrate, si calcola che sia tale coltivazione più passiva che attiva. Dalle legne pure che si ricavano da dette terre, il proprietario non ne ritrae alcun utile da calcolarsi come derrata, poiché gli alberi che si scalvano non bastano a rimettere le ripe ove mancano e quelle che si seccano con grandissima facilità per essere tutti li fossi nell’estate mancanti d’acqua che le alimenti, oltre il legname occorrente per il sostegno delle viti e tutte le rimanenti legne minute, cioè la parte padronale, sono appena sufficienti al consumo che ne fanno i proprietari, allorché si portano in campagna, od a quello dei dipendenti addetti alla condotta e cura degli stabili. Le legne grosse poi, che si seccano e si schiantano dalle ripe vecchie, non arrivano a compensare la grave spesa dell’impianto delle nuove e loro rinnovazione. I nuovi impianti non si tagliano che alli sette anni di loro età e non vengono susseguentemente scappezzati che da tre anni in tre anni. Siccome poi li trifogli nei terreni del nostro Comune non sono seminati che per dare riposo alle terre, non possono essere calcolati che per un tenuissimo reddito e molto più considerata la straordinaria concimazione che occorre farsi al terreno onde renderlo atto al dovuto raccolto di grano”. Poi definì la rendita dei terreni, minimizzandone il valore nell’interesse dei proprietari: “Ora che si sono distinte le varie classi di terreni, resta a dire della rendita annuale per cadauna classe presa di norma la misura locale del Paese. Per esempio, da un piò di terreno appartenente alla classe buona si ricava some due di frumento e some quattro, quarte sei di sorgo turco, che resta da dividere a metà col Colono. Da un piò di terra della classe mediocre si ricava una soma e mezza di frumento e tre di formentone da dividere come sopra. Da un piò di terra della classe cattiva si ricava quarte sei di frumento e some una e mezza di formentone, e quest’ultimo in tale qualità di terreni si divide al terzo: due al Colono ed uno al proprietario. Non si fa menzione della classe pessima perché non è suscettibile di prodotto calcolabile. Le viti, calcolate in n° di ceppi, si calcola che possano rendere due zerle di vino”.
La relazione fornisce quindi altre informazioni sui contratti agrari (v.), sui corsi d’acqua e sulla viticoltura sempre meno diffusa, che produceva comunque vini di “infima qualità”. Il valore del fondo aumentava in presenza di edifici colonici dedicati sia alla conservazione e trasformazione dei frutti raccolti (granai, cantine, ecc.) sia all’alloggio dei salariati e al ricovero del bestiame da lavoro. Minor valore avevano invece i prati e le “boschine”, che garantivano solo redditi integrativi, legati alla cessione di fieno e legname. I terreni irrigui destinati a prato venivano spesso utilizzati dai malghesi, che ne pagavano l’affitto sia in denaro che in quote di letame.
Le varietà di frumento usate fino alla metà dell’Ottocento erano la “nostrana”, la romagnola, il marzuolo e la veneta (Cologna). Poi venne introdotto il “Rieti”, resistente alla nebbia.
Nei primi anni dell’età della Restaurazione, vi fu una congiuntura negativa per la produzione agricola. E negli anni seguenti andarono aumentando i proprietari borghesi a scapito dell’antica nobiltà. Alla metà dell’Ottocento i maggiori proprietari locali erano Ercole Guaineri (547 piò), Clateo Franzini (S. Giulia, 501), Andrea Tonelli di Coccaglio (Antezzate, 366), Antonio Bonomi (Contrada di Sopra, 147), Pietro Rossi e Carlo Rossa (Fedrisa, 215), G. Battista De Finetti (73), Pietro Cuni (72).
Alla metà dell’Ottocento, l’oidio (mal bianco o “bianchina”) e poi la fillossera fecero crollare le produzioni di vino e la coltivazione della vite in pianura venne man mano abbandonata; mentre la pebrina colpì la bachicoltura creando qualche difficoltà alle manifatture tessili. Con l’unità d’Italia si protrasse la crisi agricola, pagata in larga parte dai ceti rurali, che vedevano peggiorare le proprie già precarie condizioni di vita, anche per l’esacerbarsi delle imposte, che toccarono l’apice dell’impopolarità con l’introduzione della tassa sul macinato.
Nel 1861, col sostegno dell’Ateneo di Brescia, sorse il Comizio Agrario, il primo ente nato ad esclusivo supporto dell’agricoltura bresciana, che favorì la diffusione di conoscenze e il miglioramento delle tecniche di coltivazione e di allevamento, promosse opere di bonifica, enti cooperativi e la nascita del Credito Agrario Bresciano. Ma, identificando il problema dell’agricoltura con quello della proprietà, pose scarsa attenzione alle condizioni dei contadini e assunse un carattere corporativo. Una più efficace preparazione agronomica fu attuata dalle numerose scuole agrarie sorte in provincia negli ultimi decenni dell’Ottocento, che vennero poi affiancate dai Consorzi Agrari, dalla Cattedra ambulante di agricoltura di don Giovanni Bonsignori e dalle Scuole di agricoltura.
La grande crisi agraria degli anni ’80 dell’Ottocento, dovuta ad un eccesso di offerta di cereali esteri a prezzi più convenienti, rese ancora più precarie le condizioni dei piccoli proprietari, che in vari casi furono costretti a cedere i loro appezzamenti di terra, e favorì le aziende agricole di grandi dimensioni, gestite da proprietari e conduttori intenzionati a trarre dai loro terreni redditi pari a quelli di altre forme di investimento (rendite finanziarie o manifatture industriali). Anche se avevano un’estensione inferiore a quelle detenute in precedenza dalle famiglie patrizie, le nuove imprese agricole potevano disporre di edifici colonici più grandi e di maggior superficie destinata a coltura, grazie al maggior ricorso alle rotazioni con piante foraggere. Il nuovo dimensionamento, reso possibile anche dall’evoluzione del credito agrario, favoriva il ricorso a nuove tecniche agronomiche e la crescita delle produzioni complessive, oltre che dei rendimenti unitari.
Ma, mentre si andava sempre più sviluppando il capitalismo agrario, si allargava il numero dei braccianti agricoli e aumentò la tendenza a scaricare i costi degli investimenti sui contratti agrari, sempre più sfavorevoli ai lavoratori, generando così scioperi ed agitazioni sociali. L’impiego di moderni e costosi macchinari agricoli (aratri metallici e trebbiatrici), generalmente presi a noleggio, cominciò a ridurre la necessità di manodopera.
I lavoratori della campagna si organizzarono in sindacato e molti di loro decisero di passare al settore industriale, mentre altri emigrarono all’estero. A Roncadelle, la cui popolazione andava aumentando e si orientava sempre più verso il settore industriale, nacque una società di mutuo soccorso (col sostegno del parroco don Giulio Tadini) per tutelare i lavoratori in situazioni di malattia, di infortunio, di disoccupazione. Fu la prima manifestazione di una presa di coscienza dei lavoratori, che sfocerà poi nella creazione delle Leghe bianche (cattoliche) e rosse (socialiste).
Con l’introduzione di nuove rotazioni agrarie, le produzioni cerealicole vennero ridotte a favore delle leguminose foraggere, trifoglio ladino ed erba medica. Furono costruite nuove grandi stalle per la stabulazione bovina, mentre si riduceva la transumanza. Così, oltre a sviluppare il settore lattiero-caseario, si aumentò la disponibilità di stallatico, che portò ad una maggiore fertilità dei fondi agricoli.
Tra i cambiamenti di quel periodo a Roncadelle vi furono i passaggi di proprietà di alcune grosse aziende agricole: quella di Antezzate nel 1878 fu acquistata da Gaetano Facchi (1812-1895) grosso commerciante del ferro, che decise di dedicarsi all’agricoltura e alla pubblica amministrazione, diventando sindaco di Brescia e poi deputato al Parlamento come liberale di destra; Villa Nuova dal 1892 divenne proprietà di Giovanni Lombardi, che aveva fatto fortuna con la bachicoltura e col commercio dei bachi da seta; i possedimenti Bonomi in Contrada di Sopra vennero ceduti a Francesco Berardi, banchiere bresciano e sindaco a Roncadelle dal 1871 al 1884; la Fedrisa venne acquistata da Pietro Ghio. Alla fine dell’Ottocento l’80% del territorio apparteneva ancora a pochi proprietari: Clara Franzini Bettoni (S. Giulia, 513 piò), Scipione Guaineri (387), Carlo Facchi (382), Giovanni Lombardi (213), Giovanni Dusi (158), Maria Berardi (149), Pietro Ghio (143), Federico Rota (93), Francesco Vecchi (77), fratelli Fieni (64), famiglia Tagliaferri (73), Aurelia Cuzzetti (52).
Tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento si verificò nel Bresciano una piccola rivoluzione agraria, in cui l’istruzione e il credito giocarono un ruolo decisivo: fu esteso il sistema della conduzione capitalistica, si attuarono trasformazioni tecnologiche e organizzative, si diffuse il sistema cooperativo (casse rurali, consorzi agrari, ecc.), vennero migliorati i rendimenti unitari dei cereali grazie all’utilizzo di nuove macchine e di sementi selezionate, aumentò l’impiego di fertilizzanti chimici, si incrementò la produzione di fieno e foraggi e si ampliò il patrimonio bovino. Inoltre, la diffusione di latterie sociali e di cooperative di consumo diede nuove prospettive ai lavoratori e contribuì ad alleviare la questione sociale.
Novecento. Nei primi anni del Novecento le produzioni cerealicole registrarono un notevole incremento; con il superamento delle rotazioni depauperanti, le leguminose si estesero ad una parte considerevole dei seminativi e l’uso dei concimi chimici (insieme alle più abbondanti letamazioni) arrestarono l’esaurimento della terra, favorendo un aumento della resa unitaria: la produzione di frumento arrivò a 14 q. per ettaro e quella di granoturco raggiunse i 25 q./ha, compensando così la diminuzione della superficie coltivata. Poi, dal 1915 al 1918, a causa della “grande guerra”, le campagne subirono una forte riduzione della forza lavoro per la mobilitazione militare e l’arruolamento di contadini nelle fabbriche per le produzioni belliche. Donne e bambini cercarono di riempire come potevano i vuoti di manodopera, ma le produzioni agricole si andarono inevitabilmente riducendo e, per di più, dovettero subire requisizioni (anche di bestiame) per esigenze di guerra.
Nel dopoguerra si manifestarono nuovi segni di crisi e di disagio sociale, accentuato da una progressiva meccanizzazione delle campagne e dal rifiuto da parte padronale dell’imponibile di manodopera (10 unità lavorative ogni 100 piò), imposta dal governo per fronteggiare la disoccupazione. Inoltre, l’eccedenza di manodopera manteneva basse le retribuzioni.
Nel “biennio rosso” Roncadelle ebbe la sua giunta di sinistra, formata da operai e contadini, anche se destinata ad essere presto sconfitta dalla reazione degli agrari e dall’affermazione del fascismo.
Una importante innovazione a Roncadelle fu l’introduzione della coltivazione del tabacco, una pianta industriale capace di un altissimo prodotto lordo e di un impiego di manodopera più consistente delle colture ordinarie. Giovanni Lombardi, sempre attento alle nuove possibilità di guadagno, fu infatti tra i primi ad aderire alla sperimentazione avviata nel 1920 per iniziativa della Cattedra Ambulante di Agricoltura e del Consorzio Agrario Bresciano, diventando concessionario dello Stato e destinando parte dei suoi terreni di Villa Nuova alla tabaccocoltura (v.). L’azienda di Villa Nuova si distinse anche nella “battaglia del grano” voluta dal regime fascista per ridurre le importazioni di frumento: Mario Lombardi si classificò infatti al terzo posto nella graduatoria delle grandi aziende agrarie della provincia di Brescia nel 1932 e ricevette la Stella d’Argento di 2° grado al merito rurale nel 1935.
In quel periodo vennero diffuse nuove sementi di frumento (Ardito, Villa Glori, Mentana, ecc.), che garantivano rese più elevate. Le produzioni cerealicole andarono migliorando e, grazie all’incremento dell’impiego di fertilizzanti e all’uso di arature più profonde, aumentarono anche i rendimenti unitari: nel 1926 il frumento arrivò a 16,6 q. per ettaro e il granoturco a 30,6.
Dopo la crisi del 1929-32, durante la quale la redditività per ettaro si abbassò dalle 4.268 lire del 1926 alle 2.335 lire del 1930, il rendimento delle coltivazioni andò aumentando ulteriormente; la redditività per ettaro risalì a 3.900 lire nel 1936: ciò era dovuto anche al basso livello delle retribuzioni dei salariati, rimaste praticamente ferme nel ventennio 1919-39.
A Roncadelle, nei primi decenni del ‘900, la superficie agraria aveva cominciato a frazionarsi e alcune proprietà avevano cambiato intestatario. In particolare, la vasta azienda agricola di S. Giulia era stata acquistata in gran parte dal cav. Cesare Guzzi e veniva gestita dai fratelli Falappi e dai Camplani, mentre il resto della proprietà era passato al rag. Giuseppe Crescenti e ad altri; la Teza era stata suddivisa tra Giovanni Rossi e i fratelli Giuseppe e Luigi Fieni. Dal 1920 l’istituzione di una “piazza d’armi” per le esercitazioni militari delle caserme cittadine nella parte nord-orientale del territorio di Roncadelle portò a 58 ettari il terreno di proprietà demaniale (compresi gli argini del Mella).
Nelle lotte contadine di quel periodo, spesso i sacerdoti erano al fianco di quanti reclamavano il diritto a migliori condizioni di lavoro e di salario, come don Giacomo Contessa (1895-1966), futuro parroco di Roncadelle che, come curato a S. Vigilio di Concesio, organizzò attività culturali, scuole serali per lavoratori e una cooperativa, affiancò la cattedra ambulante di agricoltura e fu vicino alle rivendicazioni dei contadini, tanto da essere chiamato “il migliolino”, ossia seguace del sindacalista cattolico Miglioli.
Nel 1936 lavoravano nel settore agricolo locale 370 abitanti, pari al 36% della popolazione attiva. Nel 1942 la superficie agraria utilizzata era di circa 705 ettari, di cui la metà coltivata a cereali (2/3 a frumento e 1/3 a granoturco). Le maggiori aziende agricole di Roncadelle, che coprivano l’88% della superficie coltivata, erano Antezzate di Antonio Facchi (gestita da Cesare Mondini), S. Giulia di Guzzi e di Crescenti, Villa Nuova del podestà Mario Lombardi, Castello di Scipione Guaineri, S. Giulina di Luigi Guaineri, Fedrisa di Giuseppe Ghio (gestita dai fratelli Falappi), Consoli e Turlini in Contrada di Sopra, fratelli Toninelli alla Mandolossa, Violino Brione di Francesco Vecchi, Teza di Giovanni Rossi e dei fratelli Fieni. La proprietà Savoldo (v.), appartenente al nob. Luigi Guaineri e gestita dalla famiglia Ferrari, avendo la sede a Roncadelle e i campi verso Onzato, dovette far fronte alle pretese fiscali di due Comuni.
Dalle rilevazioni del Comune risulta che, nelle 35 aziende agricole con almeno 3 ettari di superficie coltivata, lavoravano 165 salariati fissi (22 mandriani, 8 manzolai, 49 bifolchi e 86 generici), 40 avventizi (di cui 27 donne) e 59 familiari di conduttori.
Durante la stagione bellica 1940-45 l’agricoltura subì inevitabili contraccolpi negativi. Oltre alla carenza di manodopera, venne ridotta la disponibilità di fertilizzanti, di combustibili e di macchinari. I raccolti si andarono dimezzando e si ridusse anche il patrimonio zootecnico. L’economia venne asservita alle esigenze dello sforzo bellico, oltre che sottoposta a distruzioni e danneggiamenti. Il governo nazionale dispose l’ammasso obbligatorio dei cereali e il censimento del bestiame e dei carri presenti in ogni Comune. I generi alimentari vennero razionati e i prezzi dei beni di consumo subirono una forte impennata, mentre i salari perdevano potere d’acquisto. Molti contadini riuscivano a nascondere qualche riserva di cereali con vari espedienti e la popolazione seppe creare una rete di solidarietà (anche tra produttori e consumatori), che consentì la sopravvivenza alimentare di molte famiglie in difficoltà. Una parte del mancato conferimento agli ammassi confluì in un florido mercato nero, che arricchì alcuni produttori, commercianti e persino burocrati del regime.
Nel dopoguerra l’agricoltura risentì per alcuni anni delle difficoltà della ripresa economica. La superficie destinata ai cereali venne ridimensionata e la produttività si ridusse soprattutto a causa dell’alto prezzo dei concimi chimici; la liberalizzazione della produzione lattifera e casearia fece incrementare la coltivazione delle foraggere e l’allevamento. Nel 1946 la superficie coltivata era di 769 ettari, di cui 673 seminativi; la metà di questa era coltivata a cereali e produceva 4.738 q. di grano (in media 25,72 q./ha), 4.324 q. di mais (in media 33.52 q./ha) e 714 q. di orzo (44 q./ha). La produzione locale era quindi in linea con quella provinciale. Quando fu possibile disporre di una migliore e più consistente concimazione, la produttività ritornò ai livelli prebellici. L’allevamento bovino era ancora prevalente e praticato in aziende agricole di ogni dimensione, mentre quello suino era ridotto quasi esclusivamente a consumo familiare. E il procedere della meccanizzazione comportò il progressivo abbandono della forza motrice animale in agricoltura.
Nel 1946 le famiglie impegnate nell’agricoltura erano circa 250. Le maggiori aziende locali avevano:
| Superficie in ha. | dipendenti | persone a carico |
Antezzate di Facchi Antonio | 129,33 | 44 | 184 |
Villa Nuova di Lombardi M. | 74,60 | 33 | 105 |
S. Giulia di Guzzi Cesare | 83,27 | 25 | 116 |
S. Giulia di Crescenti G. | 27,67 | 7 | 41 |
Fedrisa di Ghio Giuseppe | 43,29 | 21 | 39 |
Consoli Alessandro | 42,98 | 21 | 54 |
Savoldo di Guaineri Luigi | 50,13 | 20 | 61 |
Turlini di Gozio Lucrezia | 32,35 | 19 | 50 |
Castello di Guaineri Scipione | 63,47 | 19 | 98 |
S. Giulina di Guaineri Luigi | 50,78 | 12 | 74 |
In quel periodo viveva in cascina circa un terzo degli abitanti di Roncadelle. Con le prime elezioni comunali del dopoguerra venne nominato sindaco il contadino Angelo Manenti, che era più facile trovare nei campi che non in municipio. La sua nomina appare come il riconoscimento di una categoria a lungo trascurata, che nel corso dei secoli aveva trasformato il territorio e il paesaggio locale con le proprie mani e tanto sudore per produrre la sussistenza necessaria a sé stessa e agli altri.
Dagli anni ’40 la popolazione locale andò aumentando non solo per il progressivo miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie della popolazione, ma soprattutto per l’arrivo di nuovi abitanti da altre località, dapprima come sfollati di guerra, poi come addetti all’industria o al settore terziario della vicina città; il che comportò il definitivo passaggio da un’economia (e una cultura) contadina ad un prevalente equilibrio economico-sociale di tipo industriale.
Nel suo percorso di crescita, l’agricoltura cercò di sfruttare i vantaggi del ritorno ad un’economia di mercato e di accumulare più ampi margini di profitto, anche per poter reinvestire nel miglioramento dell’apparato tecnico. Ma le basse remunerazioni dei salariati, derivate anche dall’eccesso di manodopera disponibile e dall’impiego di macchinari, causarono scioperi e diffuse agitazioni sociali, che assunsero a volte forme violente, come accadde a Roncadelle il 6 giugno 1949 (v. contratti agrari). Per far fronte alla forte disoccupazione del dopoguerra, le maggiori aziende agrarie vennero obbligate a un imponibile di manodopera, che raggiunse le 14 unità ogni 100 piò di campi irrigui. Tale obbligo pesò sull’attività agricola fino al 1958, quando il settore industriale riuscì ad assorbire gran parte della manodopera in eccesso.
Nella seconda metà del Novecento molte cose sono cambiate nel settore agricolo.
Territorio. La superficie coltivata a Roncadelle si è notevolmente ridotta, passando dai 769 ettari del dopoguerra ai 536 del 2000. E il suolo improduttivo, che era pari all’8,4% del territorio locale negli anni ’50, risulta quadruplicato nel 2000. Anche la dislocazione dei residenti ha risentito delle trasformazioni economiche e sociali in atto: nei nuclei rurali la popolazione è andata diminuendo, mentre aumentava quella del centro urbano. È questo il risultato di fenomeni socio-economici complessi, dal processo di industrializzazione alle nuove edificazioni residenziali, dai crescenti insediamenti commerciali al rapporto di vicinanza col capoluogo, che hanno contribuito a sottrarre spazio all’agricoltura. Se è vero che parte della superficie agraria perduta era poco produttiva, bisogna rilevare che il cambio irreversibile di destinazione d’uso ha riguardato anche aree produttive, sulla base di logiche esterne al settore agricolo. La diffusione di unità locali industriali e terziarie, come anche degli insediamenti abitativi e di grandi infrastrutture, sono stati favoriti da svariati fattori, gran parte dei quali riguardano il contesto economico-territoriale provinciale. La disponibilità di ampi spazi pianeggianti e la prossimità alla rete viaria principale hanno facilitato i nuovi insediamenti e tale processo ha rapidamente eroso gli spazi agricoli e naturali comportando una modificazione del paesaggio (v.) e dei cicli idrologici, l’impermeabilizzazione di gran parte del suolo, nonché una certa disgregazione del tessuto sociale. Va dato comunque atto all’Amministrazione comunale, di aver saputo mantenere negli ultimi decenni il fermo proposito di non oltrepassare la linea del Mandolossa nell’urbanizzazione del territorio locale, ponendo anche costante attenzione al verde pubblico (v.).
Aziende agricole. Il numero delle aziende agricole si è dimezzato: dalle 90 proprietà del dopoguerra (di cui 52 micro-aziende) alle 48 del 2000 (di cui 11 micro). E la loro ampiezza media è aumentata da 8,5 a 11,2 ettari. Hanno resistito le aziende medio-grandi, che hanno sempre coperto gran parte della superficie agraria locale. Nel 1970 le 63 aziende agricole locali occupavano una superficie di 729 ettari e ancora 10 di esse superavano i 20 ettari. In particolare, S. Giulia (126 ha, divisi in due proprietà) era gestita da sette conduttori; la proprietà di Antezzate condotta da G. Maria Boldini e Antonio Tomasoni, venne poi in parte (50 ha) ceduta a Emilio Balzarini, che vi avviò un allevamento di cavalli di razza; S. Giulina (80 ha) venne suddivisa tra i Tomasoni, gli Zucchelli, Angelo Lazzaroni e Giacomo Zanotti; l’azienda del castello (46 ha) era gestita dai fratelli Mazzotti e da Pietro Pedersini, mentre Battista Rolfi conduceva la parte del Cono ottico (14 ha). La superficie utilizzata a seminativi era di 648 ettari, metà coltivata a cereali e metà a foraggere. L’allevamento di bovini, presenti in 42 aziende, contava su 1.360 capi, di cui 526 vacche da latte.
Nel 1982 le aziende agricole locali erano 58, di cui 52 a conduzione diretta, su una superficie totale di 581 ettari. Di esse, 16 erano micro-aziende (inferiori ai 2 ha), 11 piccole (fino a 5 ha), 22 medie (fino a 20 ha) e 9 medio-grandi (fino a 50 ha). Nessuna superava i 50 ettari. Era il risultato sia del progressivo frazionamento, che aveva investito le grandi proprietà, nel passaggio verso una conduzione diretta dei proprietari o degli affittuari, sia della quasi scomparsa dei piccoli appezzamenti di terra, che venivano urbanizzati o assorbiti da aziende agricole più consistenti.
Meccanizzazione. Le aziende erano costrette a sostenere rilevanti sforzi finanziari per adeguarsi alle nuove necessità di attrezzatura e meccanizzazione e per incrementare (o conservare) le ottime produzioni medie unitarie già conseguite. Dagli anni ’60 si andò diffondendo l’utilizzo di trattrici (trattori), motofalciatrici (grazie al costo contenuto) e mietitrebbiatrici. Nel 1982 le 58 aziende agrarie locali utilizzavano 122 macchine in proprietà: 67 trattrici, 22 motocoltivatori, 14 apparecchi per l’irrorazione, 19 raccoglitrici-trinciatrici; la mietitrebbiatrice veniva invece presa a noleggio da terzi, nei periodi in cui serviva, evitando di affrontare investimenti impegnativi. E i Mola risultarono utili anche come noleggiatori. Le 48 aziende del 2000 utilizzavano 80 trattrici con 16 altri mezzi in proprietà, oltre a mezzi forniti da terzi; due aziende si erano dotate di mietitrebbia. La meccanizzazione si è andata affermando anche nelle stalle, con particolare riguardo alla mungitura meccanica. Tali innovazioni portarono un’autentica rivoluzione nelle attività agricole, riducendo la penosità del lavoro e il bisogno di manodopera, che venne maggiormente qualificata. Causa ed effetto del processo di meccanizzazione è stato il crescente esodo di unità attive dall’agricoltura verso le attività secondarie e terziarie in forte sviluppo; e sono stati soprattutto i giovani, ossia le classi di età più dinamiche e produttive, ad andarsene, costringendo l’agricoltura a nuove trasformazioni.
Addetti. Nel 1951 erano 388, un terzo della popolazione attiva di Roncadelle: 61 conduttori e lavoratori in proprio, 66 coadiuvanti e 261 dipendenti. Le famiglie con capofamiglia addetto all’agricoltura erano 211 (su 724) per un totale di 1.113 persone (su 3.330 abitanti). E notoriamente, in questo ramo di attività, donne e ragazzini aiutavano nelle varie operazioni legate a semina, zappatura e raccolta, soprattutto nei momenti clou del calendario agricolo.
Nel 1961 lavoravano nell’agricoltura locale 228 persone, pari al 16% della popolazione attiva: 70 di loro erano lavoratori in proprio, 60 coadiuvanti e 96 dipendenti. Le famiglie locali coinvolte si erano ridotte a 136 su 946. Andavano aumentando gli affittuali e la conduzione diretta, mentre si riducevano i dipendenti, anche grazie alla meccanizzazione e alle nuove tecniche di coltura; e le giornate di lavoro pro-capite aumentarono dalle 246 del 1951 alle 312 del 1962. Nel 1971 i lavoratori agricoli locali erano scesi a 104 (di cui 27 erano dipendenti) su una popolazione attiva di 1.663 abitanti.
Organizzazione. La conduzione diretta divenne il tipo organizzativo prevalente, sia nelle aziende agricole minori, dove il conduttore prestava lavoro manuale con l’eventuale ausilio di manodopera familiare o extrafamiliare, sia nelle imprese maggiori, dove l’opera del conduttore e dei suoi familiari era volta alla direzione dell’azienda, mentre i lavori manuali erano affidati a salariati ed eventuali compartecipi. La mezzadria scomparve, anche per gli interventi legislativi che (dal 1964 al 1982) ne sancirono l’estinzione. L’affittanza è andata diminuendo a favore delle aziende in proprietà totale o parziale: nel 2000 le aziende in proprietà erano 25, quelle in affitto 8 e quelle miste 15; e vari fittavoli erano diventati proprietari delle terre che avevano avuto in gestione. Le giornate lavorative sono andate diminuendo, sia per la riduzione (a volte forzata) delle superfici messe a coltura, sia per la meccanizzazione e l’utilizzo crescente di prodotti chimici; ed è aumentato il part-time extra agricolo, con la funzione di integrare il reddito familiare senza dover abbandonare terreni poco produttivi.
Produzione. Nei seminativi, i cereali sono stati interessati da un processo di riconversione colturale che ha visto (dagli anni ’70) una riduzione delle superfici a frumento a favore di quelle a granoturco, cereale indicato per molteplici utilizzi alimentari, sia per l’uomo (granella) che per gli animali (trinciato), oltre a numerosi utilizzi industriali. E la produzione del mais venne favorita anche grazie ai nuovi ibridi. Le colture industriali lasciarono il posto ad una più marcata specializzazione cerealicola-zootecnica, confermata dall’aumento dei campi coltivati a foraggere avvicendate. Così, nel 1963 è scomparsa la coltivazione del tabacco, che nell’azienda di Villa Nuova aveva dato occupazione anche a molte donne e ragazzi. È scomparsa dal paese anche la vite, che era ormai ridotta ai minimi termini. Crescevano invece gli allevamenti (v.) bovini e avicoli, legati alle industrie alimentari. Sono state ridotte anche le superfici destinate a colture foraggere o a prato permanente, man mano che si sostituivano i foraggi tradizionali con il mais nell’alimentazione bovina. Le rese per ettaro sono aumentate ulteriormente. Le colture ortive, che fino alla metà del Novecento erano destinate per lo più all’autoconsumo familiare (come anche la frutticoltura), si sono andate riducendo, ma alcune cascine, come il Cortivazzo, si sono specializzate nella produzione e nella rivendita di prodotti ortofrutticoli direttamente al consumatore. Oltre ai cambiamenti sociali, economici e tecnologici, anche l’attuazione delle differenti politiche agricole comunitarie (P.A.C.) a partire dalla fine degli anni ’60 ha comportato una progressiva riduzione della superficie agricola utilizzata (S.A.U.) ed uno spostamento dell’attività agricola verso le coltivazioni più generosamente sostenute dalla Comunità Europea nel corso degli anni.
Criticità. L’evoluzione dei sistemi agro-zootecnici ed il sempre più abbondante impiego di prodotti agrochimici, se da un lato sono all’origine di maggiori rendimenti e benefici economici, dall’altro hanno esercitato un’elevata pressione sul territorio e sull’ambiente naturale. Tra le problematiche di degrado ambientale dovute all’aumento delle rese produttive, vi sono l’intensificazione dei processi erosivi, la perdita di fertilità e la riduzione delle capacità produttive dei terreni, l’inquinamento (v.) dei suoli e delle falde acquifere, nonché gli effetti dello smaltimento dei prodotti e degli scarti. E non è ancora scomparsa la vecchia pratica di creare piccole discariche abusive in campagna depositandovi anche rifiuti (v.) speciali e tossici (compreso l’amianto) per non sostenere le spese di smaltimento. Altri problemi derivano dalle crisi climatiche, da alcune imposizioni della P.A.C., da emergenze sanitarie a volte enfatizzate dai mass-media, dalle sfide del mercato globale, dal continuo aumento dei prezzi al consumo (che porta più profitto al venditore che non al produttore), ecc.
Ma è aumentata anche la professionalità degli addetti al settore primario e sta nascendo un nuovo interesse dei giovani per l’agricoltura, che non è più vista come la “cenerentola” della società. Trasformare le difficoltà in opportunità è da sempre il filo conduttore di molti imprenditori locali, che sanno guardare avanti e raccogliere le sfide che man mano si presentano. Ora l’obiettivo che si presenta è quello di un’agricoltura che non danneggi l’ambiente, che collabori alla manutenzione della rete idraulica e alla tutela della biodiversità, che guardi anche alla produzione di energia da fonti rinnovabili, che sappia incardinare il settore primario con il terziario, oltre che con l’attività di trasformazione. L’agricoltore è infatti il primo e maggiore produttore di ambiente, alternativo all’urbanizzazione crescente, e valorizzare questo ruolo, realizzando e gestendo aziende agricole innovative, sostenibili e multifunzionali, è quanto di più utile e importante possa fare per il nostro presente e il nostro futuro.